lunedì 21 dicembre 2009

Il dialogo interno (Pillole di auto-aiuto 3)


Che rapporto c’è tra pensiero ed emozioni?
Immaginate di trovarvi ad una festa e vi viene presentato Marco.

Mentre parlate, Marco raramente vi guarda in faccia; nel corso della breve conversazione, lancia invece occhiate sopra la vostra spalla per guardare altrove nella stanza. Di seguito trovate tre possibili pensieri che si possono avere in questa situazione. Sotto ognuno di essi sono elencate quattro emozioni.

Qual è l’emozione che pensate possa seguire ognuno di questi pensieri, se fossero vostri?

Pensiero 1: “Marco è un maleducato. Ignorandomi così mi offende.”
Emozione provata: irritato, triste, ansioso, premuroso.

Pensiero 2: “Marco non mi trova interessante. Io annoio tutti.”
Emozione: irritato, triste, ansioso, premuroso.
Pensiero 3: “Marco sembra timido. Probabilmente si sente troppo a disagio per guardarmi.”
Emozione: irritato, triste, ansioso, premuroso.

Che rapporto c’è tra pensiero e comportamento?
Immaginate di trovarvi ad un buffet. Alcune persone vanno a riempirsi il piatto, mentre altri rimangono più defilati a parlare. Voi state parlando con un vostro caro amico da diversi minuti. Considerate ognuno dei pensieri seguenti e immaginate il comportamento che trovereste adeguato se tali pensieri fossero vostri.

Pensiero 1: “E’ da maleducati correre al buffet nel bel mezzo di una conversazione.”
Pensiero 2: “Quella vecchietta ha un aspetto troppo malfermo per tenere in mano un piatto.” Pensiero 3: “Se non mi precipito, finiranno le tartine.”
Pensiero 4: “Mi trovo proprio bene con questo mio amico. No ho mai conosciuto una persona più interessante di lui.”

Pensieri, comportamenti, emozioni, sensazioni sono “elementi” diversi tra loro, ma dipendenti gli uni dagli altri.
Il pensiero (il nostro dialogo interno) gioca un ruolo fondamentale nel determinare la qualità e l’intensità delle emozioni e il tipo di comportamenti emessi.

Se proviamo un disagio psicologico o una dolorosa emozione negativa fate caso a ciò che vi passa per la mente quando provate una sensazione intensa o quando reagite con forza a qualche evento.
Senza il contributo di questi pensieri non soffriremo così tanto (benché ci siano eventi oggettivamente molto spiacevoli) o non raggiungeremmo livelli così elevati di ansia, paura, depressione o senso di inadeguatezza, inferiorità o rabbia.
Questi pensieri di norma sono poco realistici e controproducenti, perché non aiutano a raggiungere i propri scopi.

Nei prossimi articoli approfondiremo la natura dei pensieri disfunzionali, nel frattempo esercitatevi a distinguere e riconoscere i vostri pensieri in generale, dalle emozioni, dai comportamenti, dalle situazioni. “Sto impazzendo” e “Sono triste”, sono pensieri o emozioni?

sabato 12 dicembre 2009

Il dialogo interno (Pillole di auto-aiuto 2)

Se vogliamo diminuire il disagio provato, se vogliamo emettere un comportamento assertivo, dobbiamo iniziare “smantellando” ciò che c’è di negativo nel nostro modo di pensare.
A volte queste “voci” sono tutte nostre, a volte sono le voci di persone che hanno rivestito un ruolo importante nel passato: genitori, insegnanti o chiunque sia stato significativo per noi nella nostra infanzia e adolescenza.

Noi impariamo a pensare in un certo modo.

Possiamo chiederci da dove arrivino le voci interiori, i nostri pensieri più radicati, le nostre convinzioni e credenze più salde, che diamo per scontate, ma possiamo anche decidere di modificarle o abbandonarle, siamo noi che conduciamo il gioco.

Rendersi conto che siamo i soli responsabili del nostro dialogo interno ci permette di scegliere se seguire quello che ci suggerisce, se ci è utile, o meno, se ci fa star bene o male e se modificarlo, in modo diverso, ogni volta che vogliamo.

Ecco come cominciare:

1- Prendere coscienza del proprio dialogo interno.
Questo semplice fatto è il primo passo da gigante per prendere in mano le redini della propria vita.


2- Iniziare a notare cosa ci passa per la mente in determinate situazioni (è più facile iniziare da quelle situazioni nelle quali proviamo disagio).


3- Riconoscere che talvolta il dialogo interno è utile, e che altre volte è restrittivo ed inappropriato e stabilire se ci sta spingendo in una direzione che ci fa star bene o ci fa star male.

martedì 10 novembre 2009

Il dialogo interno (Pillole di auto-aiuto).


Pensare e immaginare sono attività costanti, i pensieri si formano in continuazione nella nostra mente, perciò li chiamiamo automatici. Facciamo sogni a occhi aperti sul pranzo o il fine settimana o ci preoccupiamo delle commissioni che dobbiamo sbrigare. Questi sono tutti pensieri automatici.

In psicoterapia cognitiva siamo interessati a quei pensieri automatici che ci aiutano a capire le emozioni e i sentimenti intensi.
Questi pensieri possono essere costituiti da parole (“Sarò preso in giro”), immagini (ci si può vedere al centro dell’attenzione, con i volti delle persone che si fanno beffe di noi), oppure ricordi (il ricordo di quella partita di calcio in cui abbiamo sbagliato un’azione e i compagni e l’allenatore si sono tutti messi a ridere).

Nell’articolo “l’ABC delle emozioni” abbiamo visto come questo modo specifico di parlare a noi stessi è talmente veloce e dato per scontato, da avere l’impressione che siano le situazioni a scatenare le nostre emozioni e i nostri comportamenti. In realtà è ciò che pensiamo della situazione che influisce sulla qualità delle proprie reazioni:

A)evento esterno -> (B)interpretazione dell’evento -> (C)emozioni e comportamenti.

Spesso tutti i motivi di un disagio vengono attribuiti a situazioni a noi esterne, così è forse più facile biasimare e dare la colpa agli altri e alle situazioni, piuttosto che prenderci la responsabilità delle nostre reazioni. Ma è accettando la semplice verità dell’esistenza del dialogo interno, che possiamo acquisire un maggior controllo sulla nostra vita senza sentirci completamente impotenti e in balia degli eventi esterni.

Se ci rendiamo conto che le nostre reazioni alle situazioni possono essere controllate, il nostro senso di efficacia aumenta, così come l’autostima e la consapevolezza di avere in mano il controllo della propria vita.

Se le situazioni ci fanno soffrire, perché non decidiamo di cambiare e di affrontare in modo diverso i momenti difficili? E’ possibile farlo, ricordando che possiamo essere noi gli artefici del nostro benessere, del nostro successo.

Come?
Restate sintonizzati...

Il perfezionismo patologico.



Il perfezionismo patologico ha due aspetti:
1- è centrato su aspettative su se stessi, gli altri e la vita irrealisticamente ed eccessivamente alte. Basta poco, quindi, perché qualcosa risulti inferiore alle aspettative e la reazione sia di profonda delusione e/o di severa critica.
2- è attento quasi esclusivamente alle piccole imperfezioni e agli errori in voi stessi e nel vostro lavoro. Prestando attenzione a ciò che è sbagliato, tende a sottovalutare e ad ignorare cosa è giusto.

Il perfezionismo è una causa comune di bassa autostima. Critica ogni sforzo e convince che nulla è mai abbastanza buono. Può anche arrivare a causare stress cronico, spossatezza ed esaurimento. Ogni qualvolta il perfezionismo consiglia "dovresti", "dovevi" o "devi fare", si tende ad agire sotto la spinta dell'ansia, piuttosto che delle inclinazioni e dei desideri spontanei.
Più si è perfezionisti, più facilmente si è predisposti ad essere ansiosi. Superare il perfezionismo eccessivo è possibile, ma richiede un cambiamento fondamentale dell'atteggiamento verso se stessi e del modo in cui ci si adatta alla vita in generale.
Sostanzialmente è necessario riconoscere e superare gli stili di pensiero perfezionistici.

Il perfezionismo si esprime attraverso il modo in cui si parla a se stessi.
Ci sono tre tipi di pensieri caratteristici di un atteggiamento perfezionistico:
1- "Pensiero Dovrei/Devo",
2- "Pensiero Tutto-o-Nulla" e
3- "Iper-Generalizzazione".

Ecco alcuni esempi, confrontati con un atteggiamento meno rigido, pensate ci sia una differenza tra i due modi di pensare?

Dovrei/Devo: "Dovrei essere capace di farlo bene." => "Farò del mio meglio.", "Non devo commettere errori." => "E' possibile commettere errori."
Tutto-o-Nulla: "E' tutto sbagliato." => "Non è tutto sbagliato. Alcune parti sono OK e altre richiedono attenzione." "Non posso farlo tutto." => "Se lo suddivido in passi abbastanza piccoli, posso farcela."
Iper-Generalizzazione: "Faccio sempre le cose sbagliate." => "Non è semplicemente vero che faccio sempre le cose sbagliate. In questo caso particolare, tornerò indietro e farò le dovute correzioni." "Non sarò mai capace di farlo." => "Se faccio piccoli passi e mantengo uno sforzo costante, col tempo porterò a termine ciò che ho programmato di fare."

Spendete una settimana annotando tutti i casi in cui siete coinvolti in pensieri "dovrei/devo", "tutto-o-nulla" o in iper-generalizzazioni. Verificate ciò che dite a voi stessi le volte in cui vi sentite particolarmente ansiosi o stressati. Quante volte usate termini del tipo "dovrei", "devo", "dovevo", "sempre", "mai", "tutto" o "nessuno"?
Nelle settimane successive, provate a formulare, per ogni pensiero perfezionistico, pensieri meno rigidi per incoraggiarvi a sviluppare un approccio alla vita meno perfezionistico e ripeteteli ogni volta che dite a voi stessi termini del tipo "dovrei", "devo", "dovevo", "sempre", "mai", "tutto" o "nessuno".

mercoledì 7 ottobre 2009

Il Disturbo d'Ansia Generalizzato (DAG).

La caratteristica principale del Disturbo d’Ansia Generalizzato (DAG) è la rimuginazione, vale a dire l’eccessiva preoccupazione per numerosi eventi o situazioni della vita quotidiana.
Il soggetto che soffre di DAG deve presentare almeno tre dei seguenti sintomi: mancanza di riposo e sensazione di irascibilità; facile e ricorrente affaticamento; difficoltà di concentrazione; facile irritabilità; disturbi del sonno; tensione muscolare.
Chi soffre di DAG non riesce a rilassarsi ed è in continua apprensione per numerosi eventi della vita quotidiana (il lavoro, la famiglia, la scuola, ecc…) vissuti come minacciosi e potenzialmente pericolosi.

La caratteristica specifica del DAG è una sensazione persistente e ricorrente di preoccupazione eccessiva ed incontrollabile. Le rimuginazioni sono vissute come disturbanti ed impossibili da scacciare.
Queste preoccupazioni sono di due tipi:

tipo 1) riguardano eventi giornalieri come la paura di incontrare certe persone o paura di commettere errori nel lavoro o il timore di non essere in grado di superare un esame o una interrogazione;
tipo 2) riguardano la preoccupazione di essere preoccupati e non riuscire a scacciare i pensieri preoccupanti.

Le persone ansiose presentano un particolare quadro psicologico caratterizzato da numerosi doverizzazioni come il bisogno di essere sempre perfetti e di non potersi mai permettere neanche il minimo errore.

Alcune persone ad esempio già al mattino si sentono tesi perché temono di non poter essere in grado di svolgere adeguatamente un dato compito lavorativo. Altri ancora temono il giudizio della gente, dei familiari o dei superiori oppure attribuiscono eccessiva importanza a un qualche aspetto della vita come la carriera, il successo, le apparenze esteriori, ecc….

Le rimuginazioni di tipo 2 riguardano generalmente le seguenti preoccupazioni:

- non ho il controllo delle mie rimuginazioni;
- le preoccupazioni possono farmi impazzire;
- le rimuginazioni sono pericolose per il cuore e per le malattie;
- potrebbero non scomparire più;
- potrei essere sopraffatto dalle preoccupazioni.

La terapia Cognitivo – Comportamentale del DAG consiste nel ridimensionamento delle preoccupazioni riconducendole al reale problema e riducendo o ridimensionando le apprensioni catastrofiche. Il primo passo consiste nel riconoscimento delle preoccupazioni; il secondo nel ricondurle alla realtà dei fatti; il terzo passo consiste nella soppressione delle rimuginazioni bloccandole al loro immediato comparire attraverso tecniche terapeutiche, quali i “periodi di preoccupazione controllata”, le “tecniche in immaginazione”, gli “esperimenti comportamentali” e “la modifica del dialogo interiore”.

mercoledì 16 settembre 2009

La scelta efficace.


Negli articoli precedenti inerenti l'assertività abbiamo visto che essere assertivi significa vivere con serenità i nostri rapporti con gli altri con l’equilibrio di chi non subisce e non aggredisce; sostenere la propria integrità e dignità e allo stesso tempo incoraggiare ed accettare questo comportamento negli altri. E’ assertivo colui che è capace di iniziare, continuare e portare a termine le interazioni sociali, possibilmente con facilità ed a proprio agio.

Alla base dell’assertività ci sono una serie di abilità sociali, tra le quali, chiedere ciò che si desidera, rifiutare ciò che non si vuole ed esprimere i propri desideri positivi e negativi agli altri. Dato che il comportamento assertivo implica un’interazione con un’altra persona, esso comporta il possesso e soprattutto la capacità di attuare nella vita di tutti i giorni queste abilità.

Possiamo migliorare la nostra competenza interpersonale attraverso l’apprendimento di efficaci strategie per richiedere ciò di cui si ha bisogno, per saper di dire di no e per gestire i conflitti interpersonali. “Efficacia”, in questo contesto, significa ottenere i cambiamenti desiderati mantenendo la relazione interpersonale e il rispetto di sé.

Abbiamo anche visto che le persone hanno il diritto, ma non l’obbligo di essere assertive. Nelle scelte individuali siamo responsabili delle conseguenze delle nostre scelte. Una scelta efficace, però, dipende fondamentalmente dall’obiettivo che si vuole raggiungere in una determinata situazione.
Le nostre abilità sociali dipendono quasi interamente dalla capacità di analizzare la situazione in cui ci troviamo e di identificare gli obiettivi prioritari.

Secondo la psicoterapeuta Linehan, l’efficacia interpersonale comprende tre tipi di efficacia:

1- l’efficacia negli obiettivi (perseguire i propri obiettivi e le proprie mete in una data situazione),
2- l’efficacia nelle relazioni (promuovere o mantenere una buona relazione),
3- l’efficacia nel rispetto di sé (mantenere o migliorare il rispetto e la stima di sé).

Inoltre, tutti e tre i tipi di efficacia devono essere presi in considerazione in una situazione problematica e, in una data circostanza, si attribuisce più o meno importanza ad uno o più di essi. Ad esempio:

- un vostro caro amico vi telefona dicendovi che ha lasciato una cosa importante in ufficio e avrebbe bisogno di un passaggio perché la sua auto non è disponibile e voi volete vedere la partita della squadra del cuore alla tv.
1. Obiettivo: vedere la partita.
2. Relazione: mantenere un buon rapporto con l’amico.
3. Rispetto di sé: equilibrare le necessità dell’amico alle vostre.

L’efficacia della vostra scelta, e di conseguenza del vostro comportamento, dipenderà dalla vostra priorità. Cos’è più importante per voi in questo caso? Vedere la partita, mantenere una buona relazione o agire in modo tale da mantenere positivi sentimenti verso voi stessi?

lunedì 7 settembre 2009

La fobia sociale (ansia sociale).




La fobia sociale, chiamata anche ansia sociale, è un disturbo caratterizzato da un’ansia molto intensa e da un’eccessiva attenzione a se stessi durante le situazioni sociali quotidiane.
Le persone che sofforno di questo disturbo hanno una paura persistente di essere osservate e giudicate dagli altri ansiose, deboli, "pazze" o stupide e di trovarsi in grave imbarazzo o umiliazione a causa delle loro azioni.
Possono, quindi, evitare di mangiare, bere o scrivere in pubblico per timore di rimanere imbarazzati dal fatto che gli altri possano assistere ad un loro comportamento inadeguato o suscettibile di giudizio negativo, come il tremore delle loro mani, oppure temere di parlare in pubblico o con estranei perché preoccupati di dimenticare quello che devono dire, oppure per la paura di apparire poco chiari o di esprimere opinioni “stupide” o che non interessano nessuno.

Le persone che soffrono di ansie sociali sono molto sensibili alle critiche e al rifiuto, hanno difficoltà ad esprimere opinioni, sentimenti e desideri e hanno una bassa autostima.
Spesso questo determina un’estrema ansia anticipatoria che precede per giorni o settimane le situazioni temute e grosse difficoltà a fare amicizie e a mantenerle, col risultato di provare ansia praticamente ogni volta in cui si trovano in mezzo ad altri. Allora la fobia sociale può essere molto invalidante, può arrivare ad impedire di andare al lavoro o frequentare la scuola per molti giorni.

Inoltre questa forte ansia è accompagnata da sintomi fisici quali palpitazioni, tremori, sudori, tensione muscolare, nausea, secchezza delle fauci, vampate di calore, arrossamenti e mal di testa. Questi sintomi contribuiscono ad aumentare la paura della disapprovazione e possono diventare essi stessi motivo di paura e di eccessiva attenzione e controllo da parte della persona.

Nonostante molte persone con ansia sociale riconoscono che i loro timori sono eccessivi, non riescono comunque a gestirli, arrivando così a colpevolizzarsi ulteriormente per le loro condotte evitanti.

Ma ciò che caratterizza in modo particolare il disturbo non è tanto la paura del giudizio altrui, quanto le reazioni emozionali che queste persone hanno nei confronti di quel giudizio, reale o immaginario che sia.
Essenzialmente ciò di cui hanno paura i fobici sociali è l'intima esperienza di sentirsi imbarazzati, colpevoli, vergognosi, disgraziati, rifiutati o umiliati: credono che provare queste emozioni sia un'esperienza insopportabile e sono convinte di non essere in grado di poterle padroneggiare e superarle.

Gli ansiosi sociali considerano, in modo irragionevole, i loro comportamenti assolutamente evidenti e quindi impossibili da non notare, di conseguenza vivono le situazioni come se tutti li osservassero e li giudicassero, anche quando il più delle volte ciò non accade. Fortunatamente, come tutti i disturbi d’ansia, la fobia sociale è trattabile con ottimi risultati attraverso le procedure di terapia cognitiva e compotamentale scientificamente sperimentate.

martedì 11 agosto 2009

Comunicazione manipolativa: il comportamento imprevedibile

Marco ha sei anni. Gli piace molto disegnare e una volta completato un disegno lo mostra orgoglioso alla mamma. Lei lo ringrazia, gli fa i complimenti e lo abbraccia affettuosa, spronandolo a continuare così. Marco torna nella sua cameretta e inizia un nuovo disegno.
Questa sera la famiglia di Marco ha ospiti a cena, la mamma è impegnata e concentrata a cucinare. C’è molto da fare, è sola, le piace molto cucinare, ma inizia a sentire un po’ di stanchezza, dopo molte ore passate affaccendata sui fornelli.
Marco ha completato un altro disegno. Sorridente lo porta alla mamma, ma non riceve molta attenzione. La mamma è sbrigativa e lo invita a tornare a giocare. Marco insiste, la mamma si spazientisce: “Non mi seccare! Non vedi che ho da fare?”. Marco prova disagio e arrabbiato torna in camera sua; non è la prima volta che ciò succede, ricorda. Marco non comprende, è agitato: a volte è premiato quando fa dei disegni, la mamma ha piacere quando glieli mostra, altre volte invece è punito, la mamma si arrabbia e lo respinge. All’idea di portare alla mamma un nuovo disegno, Marco entra in ansia, ha difficoltà a capire se la mamma è di buono o cattivo umore, non sa cosa aspettarsi.

Quando si viene premiati e puniti per uno stesso comportamento proviamo disagio e frustrazione e iniziamo ad essere insicuri delle nostre decisioni.

L’atteggiamento della mamma di Marco è chiamato comportamento imprevedibile o incoerente.
Nel momento in cui siamo oggetti del comportamento incoerente, per sottrarci dallo stato di disagio e per eliminare il senso di frustrazione, spesso reagiamo in modo aggressivo o passivo. Ad esempio una ragazza che riceve dal compagno affettuosi complimenti per avere indossato una certa gonna, quando decide di farsi di nuovo bella per lui e il ragazzo non sembra notarlo o fa commenti sulla vistosità del trucco, potrebbe chiudersi in se stessa, “portare il muso” o arrabbiarsi, sentendosi incompresa.

Nonostante non sia una strategia manipolativa come la colpevolizzazione o l’inferiorizzazione (approfondite negli articoli precedenti) l’effetto di tale comportamento è molto simile: sviluppa disagio, frustrazione, insicurezza e dipendenza.
Non sempre il comportamento imprevedibile è intenzionale, agito, cioè per far sentire sbagliati gli altri, anzi, il più delle volte, come nell’esempio precedente, è del tutto involontario, chi cade nell’incoerenza e nella contraddittorietà spesso non se ne accorge.

Negli altri articoli sotto l'etichetta "assertività" trovate alcuni modi studiati e insegnati in psicologia per far fronte alle critiche e ai comportamenti manipolativi.

Le critiche distruttive: la colpevolizzazione.

Nell’articolo precedente abbiamo distinto le critiche costruttive da quelle manipolative (o distruttive). Ora approfondiremo l’utilizzo di queste ultime, ricordando che le critiche manipolative si possono suddividere in quattro categorie: la colpevolizzazione, l’inferiorizzazione, l’imprevedibilità e la benevolenza.

Colpevolizzando l’altro si cerca di ottenere ciò che si vuole sperando che l’interlocutore ceda sotto la pressione del senso di colpa e accetti le nostre richieste e le nostre opinioni.
Il comportamento colpevolizzante viene usato principalmente per ridurre il proprio disagio e per ottenere dagli altri ciò che vogliamo.
Ecco alcuni esempi di frasi colpevolizzanti:

- “mi fai stare male”;
- “non mi capisci”;
- “io che ho fatto tutto questo per te”;
- “se non mi chiami, sto male”;
- “non mi ami come ti amo io”;
- “i veri amici si comportano in un altro modo”;
- “possibile che tu non riesca a fare nulla di buono?, quel tuo amico, lui si, che prende sempre ottimi voti”, ecc…

Non sempre, però, chi colpevolizza prova disagio. Ad esempio, la persona aggressiva può non sentirsi a disagio nel manipolare gli altri, perché è abituata a ricorre alla colpevolizzazione come mezzo di comunicazione. La persona tendenzialmente passiva, invece, quando colpevolizza, si sente in colpa.

Come riconoscere un comportamento passivo quando qualcuno riceve una colpevolizzazione?
Ci sono tre possibili risposte.

- Uno: il passivo sente disagio e per ridurlo subisce. L’incremento del senso di frustrazione e l’impotenza provate alla sottomissione diminuisce e conferma la sua già bassa autostima.
- Due: prova disagio e aggredisce contrattaccando. Il rapporto o la comunicazione con l’altro probabilmente si incrinerà o finirà.
- Tre: prova disagio, ma riesce a gestire la situazione. Purtroppo il senso di colpa che inevitabilmente prova, in futuro, renderà più probabile la messa in atto degli abituali comportamenti passivi: reagire ad una manipolazione subendo e “tenendo tutto dentro”.

Come potrebbe reagire, invece, un aggressivo quando viene colpevolizzato?
Difficilmente subirà la manipolazione, ma contrattaccherà con un’altra critica manipolativa. O per di ridurre il disagio provocato dalla colpevolizzatone dell’altro oppure perché, anche senza provare sensi di colpa, la persona aggressiva aggredisce in quanto questo è il suo stile di comportamento più comune.

E’ importante, infatti, comprendere che non tutte le persone che usano critiche manipolative lo fanno con l’intenzione di ferire o creare disagio agli altri. Spesso, anzi, è una mancanza di abilità sia a elargire critiche costruttive, sia a chiedere ed a esprimere ciò che si desidera e si pensa. E’ possibile e opportuno, quindi, imparare nuove modi di relazionarci agli altri.
Altre volte, le persone possiedono queste abilità sociali, ma è l’ansia che deriva nel metterle in atto in varie situazioni che impedisce loro di comportarsi in maniera adeguata, senza provare disagio. Infine la persona assertiva, in possesso cioè di adeguate abilità sociali, è in grado di rimanere ferma nelle sue posizioni e di eludere le critiche manipolative senza sentirsi in colpa e senza aggredire l’altro.

Nei prossimi articoli affronteremo l’uso dell’inferiorizzazione e del comportamento imprevedibile e successivamente vedremo quali sono le abilità sociali più efficaci per gestire le critiche manipolative senza provare disagio.

Gestire le critiche (seconda e ultima parte).



In questo articolo concludiamo la panoramica sulle più comuni ed efficaci tecniche di gestione assertiva delle critiche manipolative, approfondendo l’annebbiamento e l’inchiesta negativa.

L’annebbiamento è utile quando si viene messi sotto pressione per fare qualcosa che non interessa e che non si vorrebbe fare.
Consiste nel creare una sorta di “banco di nebbia”, con l’intento di “confondere”. Si ascolta ciò che la persona dice e si decide se si desidera aderire o meno. Se non lo si desidera, usando le parole dell’altra persona o simili, si riconosce il suo bisogno, ma si dichiara il proprio punto di vista. In questo modo si dimostra all’altro di aver compreso la sua richiesta, ma di non avere intenzione di accettarla. Quando si è oggetto di critiche l’uso dell’annebbiamento permette di dare ragione all’interlocutore negli aspetti più costruttivi e reali della critica, rigettando, però, l’idea di farsi coinvolgere in ulteriori discussioni. Questo è un modo gentile per dire "No" e allo stesso tempo offre l’opportunità di riflettere se la critica che viene rivolta è fondata.
Ecco alcuni esempi:

- richiesta/critica: “Non mi stai aiutando (colpevolizzazione). Sei un egoista (inferiorizzazione).”
Annebbiamento: “Forse hai ragione.”;
R: “Non capisci mai niente (inferiorizzazione).”
A: “Posso non capire. E’ possibile che tu abbia ragione.”;
R: “Siamo sempre in ritardo (colpevolizzazione).”
A: “Sì, è vero, arriviamo sempre in ritardo.”

L’annebbiamento deve essere espresso con un tono calmo, come se si stesse riflettendo sulle parole dell’altro. Di fatto, è meno probabile che si venga manipolati a fare qualcosa che non si vorrebbe fare, si riconoscono i bisogni degli altri e si esprime l’intenzione di cambiare solo se lo si giudica opportuno e non a causa delle insistenze altrui.

Attraverso l’inchiesta negativa si invita la persona che ci rivolge una critica a fornire ulteriori spiegazioni ed esempi per comprendere meglio e con chiarezza a cosa si riferisce e quale atteggiamento o comportamento vuole che cambiamo.
Questa tecnica è molto utile per vari motivi: porta la persona che accusa ad essere più precisa e a dare informazioni sulle sue motivazioni, “smonta” la critica, se questa non è fondata o è rivolta in mala fede, dato che l’interlocutore rimane a corto di argomenti, e può indurre ad un vero cambiamento, se ci si accorge che la critica può essere d’aiuto per la correzione di un nostro comportamento. Inoltre, permette di gestire l’attacco dell’altro, in quanto non si risponde aggressivamente o in modo passivo.
Vediamo alcuni esempi dell’uso della tecnica:

- critica: “Non mi stai aiutando. Sei un egoista.”
Inchiesta Negativa: “In che modo non ti sto aiutando? Come pensi che potrei cambiare?”
C: “Non capisci mai niente.”
I.N.: “Che cosa non ho capito di preciso? Che cosa ti infastidisce del mio modo di agire?”

Le tecniche descritte sono comportamenti assertivi generali che si possono acquisire con la pratica e applicare a qualsiasi situazione sociale. Sono l’espressione di una buona autostima e della fiducia di affrontare i conflitti sociali con sicurezza ed efficacia.

mercoledì 29 luglio 2009

Le emozioni.

Estate, tempo di vacanze, di svago, di divertimento e relax; tempo di ricerca di emozioni piacevoli.
Ma cosa sono per noi le emozioni? Che tipo di emozioni proviamo?
Quale significato rivestono nella nostra vita? E quali conseguenze hanno le nostre reazioni emotive, sui nostri e altrui comportamenti, pensieri e emozioni?

Spesso sento parlare di emozioni senza un precisa differenziazione, “Ho provato una grande emozione!”, o “Sono emozionato!”.
A volte di emozioni non si parla nemmeno, per esprimere ciò che proviamo, raccontiamo di eventi e situazioni, ci concentriamo su ciò che bisognerebbe fare e dire per risolvere un disagio o un problema.

La nostra cultura spesso enfatizza il controllo di sé e l’efficienza a discapito delle emozioni, forse perché vi è l’errata idea che per avere un adeguato controllo di sé, degli altri e dell’ambiente bisogna essere razionali e sia necessario dominare le emozioni. Ma la repressione delle emozioni è causa di stress, problemi psicosomatici, disturbi fisici e psicologici, perché le emozioni sono una fondamentale modalità di conoscenza di se stessi e degli altri. Sono innate, allertano, orientano e predispongono all’azione e svolgono un’importante funzione sociale di segnalazione dello stato di benessere proprio e altrui, determinando la formazione e il mantenimento dei legami affettivi.

Per non perdere il controllo di sé è pertanto importante riconoscere, accettare ed esprimere adeguatamente le emozioni.

Uno dei motivi alla base della tendenza a reprimere le emozioni, con lo svantaggio di non imparare a identificarle, accettarle ed esprimerle, impoverendo così la propria vita interiore e soprattutto mantenendo inalterati i disagi personali e interpersonali, risiede nelle convinzioni e nelle credenze errate riguardo le emozioni apprese nel corso della vita.
Tra queste, le più diffuse, sono allo stesso le più “nocive” e riguardano l’idea che:

-esiste un modo giusto di sentirsi in ogni situazione;
-far sapere agli altri o far vedere che si sta male è sia un segno di debolezza, sia un pericolo, perché gli altri potrebbero approfittarne e farci del male;
-provare emozioni negative (rabbia, tristezza, paura, le più comuni) è pericoloso e catastrofico;
-provare alcune emozioni sia stupido e sia indice di stupidità o immaturità;
-essere emozionati significa aver perso il controllo; non bisogna provare emozioni dolorose, perché creano disagio (insopportabile ed eterno);
-le emozioni dolorose non sono importanti, provarle non è utile, devono essere ignorate.

lunedì 13 luglio 2009

Cosa accade durante l'EMDR



Durante l’EMDR, il terapeuta lavora con il paziente per l’identificazione del problema specifico, oggetto della terapia.
Utilizzando un protocollo strutturato, il terapeuta guida il paziente nella descrizione dell’evento o dell’aspetto disfunzionale, aiutandolo a scegliere gli elementi disturbanti importanti. Viene chiesto al paziente quali pensieri e convinzioni ha mentre richiama l’aspetto peggiore o più disturbante dell’evento. Il terapeuta aiuta l’elaborazione mediante movimenti guidati degli occhi, o altre stimolazioni bilaterali degli emisferi cerebrali.
Durante i set di movimenti oculari, il paziente rivive vari elementi del ricordo iniziale o di altri ricordi. Il terapeuta interrompe i movimenti oculari ad intervalli regolari, per accertarsi che il cliente elabori adeguatamente da solo. Il terapeuta facilita il processo prendendo decisioni cliniche relative alla direzione dell'intervento.

L’obiettivo è l’elaborazione rapida delle informazioni relative all’esperienza negativa da parte del paziente, fino ad una sua “risoluzione adattiva”.

Durante l’EMDR il paziente può provare emozioni intense, ma al termine della seduta, la maggior parte delle persone riferisce una notevole riduzione nel livello di
disturbo associato all’esperienza traumatica.
Nelle parole della dott.ssa Shapiro: una riduzione della sintomatologia, ad un cambiamento nelle convinzioni negative del cliente verso quelle positive nuove, ed alla prospettiva di una funzionalità ottimale.

Il “triplice approccio” globale utilizzato nell’EMDR si rivolge
1) alle esperienze passate,
2) alle attuali cause di stress,
3) ai pensieri ed alle azioni desiderate per il futuro.

Il trattamento con l’EMDR può durare da un minimo di 1-3 sedute, ad un anno e più per i problemi più complessi. Il tipo di problema, le circostanze di vita e l’entità dei traumi passati determineranno il numero di sedute necessarie.
L’EMDR può essere utilizzato nell’ambito di una psicoterapia tradizionale.

Cos'è l'EMDR?



L’EMDR, Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i Movimenti Oculari, è un metodo psicologico per il trattamento delle difficoltà emotive causate da esperienze di vita disturbanti, con una gamma che va dagli eventi traumatici quali combattimenti, aggressioni personali e disastri naturali, ad eventi disturbanti dell’infanzia. L’EMDR viene anche usato per risolvere l’ansia da prestazione e per migliorare il funzionamento delle persone sul lavoro, in ambito atletico ed artistico.

E' un metodo complesso che mette assieme elementi provenienti da orientamenti teorici clinici ampiamente accettati, come ad esempio quello psicodinamico, cognitivo, comportamentale, e quello centrato sul cliente.
Per molti clienti l’EMDR offre un sollievo dalla sofferenza emotiva legata ad esperienze truamatiche più rapidamente rispetto alle terapie convenzionali.

Nel 1987 la psicologa Francine Shapiro scoprì su di sé che i movimenti oculari volontari riducevano l’intensità dei pensieri negativi disturbanti. La dottoressa Shapiro iniziò uno ricerca (Shapiro 1989) per esaminare l’efficacia dell’EMDR nel trattamento di veterani della guerra del Vietnam vittime di traumi e nelle vittime di abusi sessuali. L’EMDR ridusse significativamente i sintomi del disturbo da stress post-traumatico PTSD) nei soggetti di questa ricerca.

mercoledì 24 giugno 2009

Rispondere alle critiche (prima parte).

A tutti prima o poi nella vita capita di trovarsi in situazioni sociali che creano disagio. In queste situazioni ciò che facciamo e diciamo può non soddisfarci pienamente, col risultato di stare ancora più male. Ci sono particolari situazioni in cui si è oggetto delle critiche altrui. Come abbiamo approfondito negli articoli precedenti non si può scappare dalle critiche, costruttive o manipolative che siano, dunque è saggio e salutare accettarle e analizzarle.

Le persone passive quando vengono criticate ricercano la benevolenza degli altri, stanno zitti e sembrano accettarla. Tuttavia dentro di loro possono essere furiose, sofferenti o forse desiderose di ulteriori spiegazioni. Altre persone accettano tutte le critiche come fossero automaticamente vere e tentano di cambiare se stessi per piacere agli altri. Questo è pericoloso, specialmente se una critica è ingiustificata o non corretta.

Le persone aggressive, al contrario, scatenano immediatamente un attacco, mentre le persone assertive accettano una critica, riconoscono se è costruttiva o manipolativa e, in quest’ultimo caso, sono in grado di renderla costruttiva, senza eccessivo coinvolgimento emotivo e non permettendo che la loro dignità o integrità ne venga intaccata.

Diverse sono le tecniche verbali di comunicazione assertiva che si possono apprendere per gestire una critica manipolativa. Tra le più comuni ci sono il disco rotto, l’asserzione negativa, l’annebbiamento e l’inchiesta negativa.
La tecnica del disco rotto è utile per rimanere concentrati sull’obiettivo dell’interazione (ciò che si vuole ottenere dalla relazione con l’altro). A volte è necessario ripetere con calma il proprio punto di vista, usando sempre le stesse parole, senza farsi coinvolgere dalle strategie manipolative dell’altro. Allo stesso modo, è utile usare questa tecnica allorché facciamo una richiesta che è in nostro diritto esigere. Inoltre è una tecnica che può essere usata per fare richieste, rifiuti ed esprimere il proprio punto di vista. Il disco rotto è particolarmente utile quando si pensa che non si sta ottenendo ciò a cui si ha diritto o quando l’altra persona spesso usa interrompere o attaccare verbalmente. Dal momento che bisogna solo ripetersi, il disco rotto è molto semplice da usare.

Quando si viene insultati, o si ricevono dei giudizi negativi, di solito si desidera difendersi, o ci si sente così feriti da ritirarsi. Con l’asserzione negativa, invece, ammettiamo il nostro errore e ci scusiamo. Questa tecnica riduce l’ostilità e tende a estinguere la manipolazione. L'asserzione negativa è come un arte marziale, dove si usa la potenza del proprio antagonista per volgere la situazione a proprio vantaggio. Nessuno è perfetto, così nell'asserzione negativa tutto ciò che si fa è accettare la parte dell'affermazione altrui, insulto o etichetta che sia, in modo realistico. Vediamo alcuni esempi dell’uso della tecnica: "Se pensi questo, devi essere stupido", asserzione negativa: "Ammetto di non essere la persona più intelligente del mondo". "Commetti sempre degli errori", A.N.: “Si, qualche volta faccio degli errori". “Sei pigro", A.N.: “Non ho mai sostenuto di essere la persona più accanita nel lavoro".
Nei prossimi articoli approfondiremo altre tecniche assertive.

giovedì 4 giugno 2009

L'ABC delle emozioni.



Supponiamo di stare aspettando una telefonata da un nostro caro amico. Siamo in attesa di sapere a che ora passerà a prenderci stasera per andare ad una festa. Ha detto che ci chiamerà fra un paio d’ore. Il tempo passa e l’amico non si fa sentire. Le ore trascorrono e il telefono non squilla…
Come potremmo reagire alla situazione?

Potremmo essere preoccupati, arrabbiati, tristi o anche sollevati.

Come è possibile provare emozioni così diverse per una medesima situazione?

Cerchiamo di esaminare bene tutta la sequenza. Il fatto che l’amico non ci ha chiamato all’ora prefissata è l’evento iniziale, scatenate o attivante la sequenza. Chiamiamo questo evento il punto A della sequenza.
La rabbia è uno dei modi in cui ci siamo sentiti in conseguenza al verificarsi di A, cioè un’emozione. Chiamiamo l’emozione il punto C della sequenza.

Molte persone sono convinte che sia l’evento A a scatenare l’emozione C, ossia che A causi C.
Questo è un modo per spiegare le proprie emozioni: “mi sono arrabbiato, perché non mi ha chiamato!” Ma è un modo impreciso, perchè non chiarisce come sia possibile provare diverse emozioni a causa di situazioni uguali o come persone diverse possano provare emozioni diverse nella stessa situazione. Potremmo infatti dire, allo stesso modo: “Sono triste, perché non mi ha chiamato.”
Dimentichiamo infatti un elemento importante della sequenza: quando ci accade qualcosa, noi pensiamo a quanto accade in un certo modo.

Ad esempio, la telefonata non arriva e ci rattristiamo, perché potremmo pensare: “Si è dimenticato di chiamarmi, non sono un grande amico per lui”. Oppure ci preoccupiamo: “Come mai non telefona, gli sarà successo qualcosa?”. O ci arrabbiamo, se pensassimo qualcosa tipo: “Non è così che si fa, è un maleducato!”. Potremmo perfino essere contenti se alla mancata telefonata (l’evento A) pensassimo: “Meno male che non ha telefonato. Non avevo proprio voglia di andare alla festa…”.
Perciò chiamiamo i pensieri il punto B della sequenza, l’elemento che sta in mezzo, tra il punto A, l’evento scatenate e il punto C, le emozioni.

La sequenza A-B-C così sintetizzata è un modo più preciso di spiegare le emozioni che proviamo in un dato momento.
Il modello ABC, alla base della psicologia cognitiva, sostiene infatti che le nostre emozioni derivano non tanto da ciò che ci accade, ma dal modo in cui interpretiamo e valutiamo ciò che ci accade. Ecco perché la spiegazione comune per cui A causerebbe C è inesatta. Per capire le proprie reazioni emotive è necessario andare a vedere cosa è successo al punto B, cioè iniziare a chiedersi quale insieme di pensieri su ciò che è successo è presente nella propria mente.

Questo è il primo passo per aumentare la consapevolezza delle proprie reazioni emotive e comportamentali e per comprendere le specifiche relazioni esistenti tra pensieri e sentimenti che stanno alla base dei problemi psicologici.

Il Disturbo da Deficit dell'Attenzione e Iperattività (introduzione).



Immaginate di vivere in un caleidoscopio in veloce movimento, dove suoni, immagini e pensieri cambiano costantemente. Di provare noia facilmente, di non riuscire a rimanere concentrati sulle attività che bisogna completare. Di essere distratti da suoni e stimoli visivi, in modo tale che la vostra attenzione si sposta repentinamente da un pensiero all’altro, da un‘attività all’altra. Forse siete così coinvolti in un’intricata rete di pensieri e immagini che non vi accorgete quando qualcuno parla con voi.

Per molte persone, soffrire di queste caratteristiche vuol dire essere affetti da un Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività o DDAI (ADHD in inglese). Queste persone possono essere incapaci a rimanere sedute e ferme, a progettare in anticipo, a finire le attività che si sono iniziate, o a essere pienamente consapevoli di quello che sta accadendo loro intorno. Agli occhi dei loro familiari, compagni di classe, o colleghi di lavoro, esse sembrano vivere in un turbine di attività disorganizzate e frenetiche. Inaspettatamente (alcuni giorni e in alcune situazioni) sembrano stare bene e ciò lascia presupporre che le persone con DDAI, in realtà, siano in grado di controllare i loro comportamenti. Come risultato, il disturbo può rovinare le relazioni interpersonali di queste persone, oltre che limitare e distrugger loro la vita, prosciugarli di energia, e diminuire l’autostima.

Il DDAI, un tempo chiamato disfunzione cerebrale minimale o ipercinesi, è uno dei più comuni disturbi mentali tra i bambini e i ragazzi. Colpisce dal 3 al 5% dei bambini, circa 2 milioni di bambini americani. I maschi sono colpiti in proporzione due o tre volte di più delle femmine. Negli Stati Uniti, in media, almeno un bambino in ogni classe soffre di questo disturbo e ha bisogno di aiuto. Spesso l’DDAI continua nell’adolescenza e in età adulta, e può interferire significativamente nella vita quotidiana, causando intense sofferenze emotive e distruggendo sogni e speranze.
Ma c’è aiuto e speranza. Nell’ultimo decennio, gli scienziati hanno imparato molto sul decorso del disturbo e sono ora in grado di identificarlo e trattare i bambini, gli adolescenti e gli adulti che ne soffrono. Un’ampia gamma di farmaci, terapie di modificazione comportamentale e opzioni educative sono attualmente disponibili per aiutare le persone con DDAI a focalizzare la loro attenzione, ad aumentare la loro autostima e ad acquisire nuove capacità e abilità per migliorare la qualità della vita.

Questo articolo è parte della traduzione dall’inglese (eseguita da me, insieme ad alcuni colleghi) di un documento di pubblico dominio realizzato dall’Istituto Nazionale di Salute Mentale (NIMH), che potete trovare in originale visitando il sito www.nimh.nih.gov. Il NIMH è l’Agenzia Federale del Governo degli Stati Uniti, che finanzia e costituisce ricerche nazionali per comprendere le interrelazioni tra le varie regioni del cervello e le loro funzioni, per sviluppare misure preventive e nuovi trattamenti per superare i disturbi mentali che limitano le persone a scuola, al lavoro e nel tempo libero. In sintonia con lo spirito di quei ricercatori, motivati a divulgare una conoscenza scientifica dei problemi comportamentali e psicologici, nel prossimo articolo approfondiremo le caratteristiche del DDAI.

Il Mobbing. Come riconoscerlo.

Il Mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato, colui che subisce queste azioni, si trova nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente.

Varie sono le patologie medico-psichiatriche che possono derivare direttamente dal Mobbing. Tra le più comuni, la ricerca evidenzia: manifestazione psicosomatiche (che sono le prime a svilupparsi), come la perdita di concentrazione, di memoria, turbe del sonno, cefalee, sudorazione; agitazione e/o irrequietezza; ansia e depressione con fissazione del pensiero sul proprio problema; disturbi comportamentali che impediscono l’esercitazione dell’attività lavorativa (attacchi di panico, disistima, ecc…) e alterazioni della personalità (fino al suicidio).

Il “Metodo Edge 2002” è una delle procedure più originali ed efficaci per la determinazione del Mobbing, in quanto permette di riconoscere scientificamente la presenza del Mobbing in una vicenda lavorativa attraverso la verifica empirica di sette parametri tassativi; quindi, mediante un processo matematico rigoroso, di percentualizzare la cosiddetta lesione Accertata da Mobbing totale permanente e successivamente di quantificare tale valore ai fini giuridici risarcitori.

I sette parametri per il riconoscimento del Mobbing sono i seguenti:

* 1. Ambiente lavorativo (il conflitto deve svolgersi sul posto di lavoro);
* 2. Frequenza (le azioni ostili devono accadere almeno alcune volte al mese, salvo caso del "sasso nello stagno");
* 3. Durata (il conflitto deve essere in corso da almeno sei mesi; almeno tre mesi nel caso del "Quick Mobbing");
* 4. Tipo di azioni
(le azioni subite devono appartenere ad almeno due delle cinque categorie del "LIPT Ege": attacchi alla comunicazione, alle relazioni sociali, all’immagine sociale, alla qualità della situazione professionale e privata, e alla salute, salvo il caso del "sasso nello stagno");
* 5. Dislivello tra gli antagonisti (la vittima è in una posizione costante di inferiorità, i protagonisti del conflitto non si fronteggiano ad armi pari, ossia non si dimostrano entrambi in grado di difendersi e di attaccare.);
* 6. Andamento secondo fasi successive (la vicenda ha raggiunto almeno la II fase, "L'inizio del Mobbing" del modello italiano Ege a sei fasi: conflitto mirato, inizio, primi sintomi psicosomatici, errori ed abusi dell’Amministrazione del Personale, serio aggravamento della salute psicofisica della vittima, esclusione dal mondo del lavoro);
* 7. Intento persecutorio (nella vicenda deve essere riscontrabile da parte dell’aggressore un disegno vessatorio coerente e finalizzato, composto da un chiaro scopo negativo volto ad ottenere un danno nei confronti della vittima con obiettivo conflittuale e carica soggettiva ed emotiva costituita dalle azioni vessatorie).

giovedì 19 marzo 2009

Gestire le critiche.



Vi è difficile esprimere una critica?
Spesso non è facile dire quello che c’infastidisce, in quanto temiamo di ferire gli altri e di rovinare il nostro rapporto con loro. La critica non espressa, però, a lungo andare compromette la relazione molto più di quella espressa apertamente ed oggettivamente. A volte riteniamo che gli altri siano più vulnerabili di quello che sono in realtà, che potrebbero fraintendere una critica o prenderla come un rifiuto della propria persona. Oppure, può accadere il contrario: quando riceviamo una critica siamo noi ad interpretarla come un attacco, come un rifiuto o come un giudizio negativo.

In generale, ci sono due tipi di critiche: quelle costruttive e quelle manipolative.
Riconoscerle permette di reagire nel modo appropriato e di mantenere nel tempo il rapporto con gli altri.

Le critiche costruttive fanno parte di una comune conversazione, mirano infatti, a fornire informazioni utili per la soluzione di un problema, per chiarire la natura di una lamentela o per esprimere un’opinione giustificata rispetto alla situazione. Ciò che differenzia, però, una critica costruttiva dalla critica manipolativa è il suo limitarsi a descrivere i fatti, precisamente è riferita ai comportamenti, non alle persone. Può essere perciò tanto un rimprovero per uno sbaglio commesso in ambito lavorativo, quanto un suggerimento disinteressato in un dialogo piacevole.

La critica manipolativa, invece, è un attacco all’integrità della persona. Chi manipola non lo fa allo scopo di mantenere o arricchire (appunto rendere costruttivo) un rapporto, tende piuttosto a prevaricare ed a imporsi emettendo giudizi sulla persona che ha sbagliato, invece che sul suo comportamento (reale oggetto dell’errore).

Le critiche manipolative si possono suddividere in quattro categorie: la colpevolizzazione, l’inferiorizzazione, l’imprevedibilità e la benevolenza.
Tutti noi nel corso delle nostre relazioni sociali mettiamo in atto queste strategie manipolative per ottenere, a volte inconsapevolmente, determinati scopi. Perché questi comportamenti, come approfondiremo nei prossimi articoli, sono efficaci modalità per ottenere una riduzione del nostro disagio e/o per indurre gli altri ad agire secondo il nostro volere.

E’ importante capire se possiamo fare a meno di utilizzarli per raggiungere gli stessi obiettivi senza creare disagio agli altri e senza cadere in comportamenti passivi o aggressivi. Il passivo, infatti, accetta tutte le critiche come fossero vere e tenta di cambiare se stesso per piacere agli altri. Questo è pericoloso, soprattutto se una critica è ingiustificata o non corretta.
L’aggressivo, invece, contrattacca immediatamente ponendo fine alla comunicazione. Mentre l’assertivo è in grado di accettare una critica costruttiva, non permette agli altri di manipolarlo e fa critiche, senza che ciò colpisca la dignità o l’integrità altrui.

Critichiamo e siamo criticati, dunque è saggio e salutare accettare le critiche e analizzare se sono costruttive o manipolative. Non tutte le critiche sono utili, non tutte le critiche sono vere, non tutte le critiche sono giustificate, non tutte le critiche sono corrette, ma si può imparare a gestirle efficacemente.

Lo stile di attaccamento sicuro.

Il sistema motivazionale dell’attaccamento è un sistema biologicamente preordinato a ricercare la vicinanza delle figure di protezione e di accudimento. E’ attivo sin dalla nascita, e collegato a questo è il sistema motivazionale dell’esplorazione che spinge verso la conoscenza del mondo. L’interazione reciproca tra questi due sistemi viene mediata attraverso la relazione che il bambino instaura con le figure di attaccamento (di solito la madre).

Complementare all’attaccamento è il sistema motivazionale di accudimento, sistema innato predisposto a fornire cure e protezione a chi ne ha bisogno. Le emozioni associate all’attaccamento sono generalmente la gioia e la tenerezza della vicinanza, quando l’attaccamento viene ottenuto, l’ansia, la paura della separazione e la tristezza, allorché il legame non viene garantito.
Gli stili di attaccamento più diffusi e conosciuti sono tre: sicuro, evitante e resistente alla separazione.

Nella modalità di attaccamento sicuro, il bambino ha fiducia nella disponibilità e nel supporto della figura di attaccamento, nel caso si verifichino condizioni avverse o di pericolo e si sente libero di esplorare il mondo. Tale stile è favorito da una figura di attaccamento ricettiva ai segnali e ai bisogni del bambino, disponibile e pronta a dargli protezione nel momento in cui il bambino lo richiede. Il bambino, infatti, riceve affetto e sicurezza da una madre accudente, che però lo lascia esplorare il mondo, vegliando, allo stesso tempo, che non si metta in gravi pericoli.
Il bambino è quindi in grado di esplorare attivamente l'ambiente sia in presenza che in assenza della madre e accoglie la madre quando questa ritorna, facendosi consolare se si trova emotivamente a disagio. Se le prime esperienze di attaccamento non vengono frustrate, non sono incostanti o dolorose e rifiutanti, il bambino svilupperà una fondamentale fiducia positiva in se stesso e negli altri.

Questa fiducia di base rende sicuri dell’esistenza di un mondo che riconosce i nostri bisogni, che li comprende e per questo ci fa sentire degni d’attenzione, d’accoglienza, capaci di ricevere e dare affetto e di formulare pensieri e convinzioni positivi su noi stessi e sugli altri. In età adulta, la persona che ha sviluppato questo stile di attaccamento è in grado di chiedere e accettare aiuto in modo adeguato.

I tratti che maggiormente caratterizzano questo stile di attaccamento nell’infanzia e nella vita adulta sono: sicurezza nell’esplorazione del mondo, convinzione di essere amabile, capacità di sopportare separazioni e distacchi prolungati, nessun timore di abbandono, fiducia nelle proprie capacità e in quelle degli altri.

sabato 7 febbraio 2009

Lo stile di attaccamento evitante



Lo stile di relazione che un bambino sviluppa dalla nascita in poi dipende in grande parte dal modo in cui i genitori (o altre figure di riferimento) interagiscono con lui. In particolare, la qualità delle nostre relazioni è determinata dal tipo di attaccamento che si instaura con la “figura di attaccamento”.

Il sistema motivazionale dell’attaccamento è un sistema biologicamente preordinato a ricercare la vicinanza delle figure di protezione e di accadimento. E’ attivo sin dalla nascita, e collegato a questo è il sistema motivazionale dell’esplorazione che spinge verso la conoscenza del mondo.
Gli stili di attaccamento più diffusi e conosciuti sono tre: sicuro, evitante e resistente alla separazione.

Il legame insicuro evitante è caratterizzato da una relazione non calorosa tra la figura di attaccamento e il figlio.
Generalmente questo tipo di attaccamento si osserva allorché, dopo un periodo di separazione (tipicamente) dalla madre, il bambino, al momento del ricongiungimento, non esprime aperte manifestazioni di rabbia o protesta oppure può mostrarsi apparentemente distaccato e indifferente. Questo atteggiamento di solito si riscontra in bambini con madri rifiutanti o comunque poco propense alla comunicazione emotiva e più interessate a promuovere l’autonomia e l’autocontrollo.

I bambini che esperiscono una madre che scoraggia o rifiuta il contatto fisico quando il bambino sta male o ha paura, sono più propensi a sviluppare questo tipo di attaccamento. Le figure genitoriali possono non rispondere alle loro richieste, rifiutarsi di aiutarli o si arrabbiano quando i figli si avvicinano a loro. Per la paura e il timore della delusione il i bambini tendono a reprimere bisogni ed emozioni, a non chiedere e a non farsi vedere bisognosi, evitando di chiedere aiuto e mostrarsi bisognosi anche quando ne avrebbero davvero bisogno.

Sostanzialmente il bambino tenderà a sviluppare un senso di non amabilità personale; è probabile che il proprio stile relazionale sarà caratterizzato dalla convinzione che, alla richiesta di aiuto, non solo non incontrerà la disponibilità della figura di attaccamento, ma addirittura verrà rifiutato. In questo modo il bambino costruisce le proprie esperienze facendo esclusivo affidamento su se stesso, ricercando l’autosufficienza anche sul piano emotivo, avverrebbe, quindi un buono sviluppo intellettuale a scapito della sfera affettiva.

Da adolescente e poi da adulto potrebbe affermare la propria indipendenza, essere perfezionista, ma allo stesso tempo evitare la vicinanza emotiva e l’affettività perché non adeguatamente attrezzati a gestire le emozioni e nutrire significative insicurezze personali e dubbi sulle proprie qualità e capacità, inoltre potrebbe mostrare difficoltà e insicurezze nell’esplorazione del mondo, rappresentazione di sé come persona sostanzialmente non amabile e non amata, percezione e aspettative di distacco, rifiuto e abbandono come “prevedibili” e “certe”, tendenza all’evitamento dell’intimità delle relazioni per paura e convinzioni di rifiuto e doloroso abbandono, apparente esclusiva fiducia in se stessi e nessuna richiesta di aiuto.

Lo stile di cominucazione Assertivo/Affermativo

I signori Rossi sono a pranzare in un ristorante. Il sig. Rossi ha ordinato una bistecca al sangue, ma quando gliela portano, la trova molto cotta, contrariamente a quanto aveva chiesto.
Il sig. Rossi chiama il cameriere al suo tavolo. Sottolineando che ha ordinato una bistecca al sangue, gli fa vedere quella molto cotta, chiedendo gentilmente, ma fermamente, che sia riportata in cucina e sostituita con quella che aveva originariamente richiesta. Il cameriere si scusa per l'errore, ed in breve tempo ritorna con una bistecca al sangue. I signori Rossi si godono il pranzo, danno la mancia e il sig. Rossi si sente soddisfatto di sé. Il cameriere è compiaciuto per il cliente soddisfatto e per la mancia adeguata.

Il sig. Rossi si è comportato assertivamente.
Siamo assertivi quando: accettiamo il punto di vista altrui; non giudichiamo; non insultiamo o colpevolizziamo gli altri; ascoltiamo il parere altrui, ma decidiamo in modo autonomo; siamo pronti a cambiare la nostra opinione; non permettiamo che gli altri ci manipolino; non pretendiamo che gli altri si comportino come fa piacere a noi; ricerchiamo l’altrui collaborazione; ci valutiamo in modo adeguato. Assertività è sinonimo di affermatività: difendere e far valere i propri diritti, esprimere i propri sentimenti, chiedere ciò che si desidera, esporre i propri punti di vista, affermare le proprie scelte con integrità, onesta, franchezza e rispetto degli altri.

L’assertivo si colloca tra il passivo e l’aggressivo.
Non cadendo nella “sfida” dell’aggressivo e non infierendo sul passivo, l’assertivo rispetta se stesso e gli altri nella stessa misura ed. è in grado di gestire le relazioni interpersonali senza provare disagio. Nell’affrontare le situazioni di disagio l’assertivo si focalizza su se stesso, laddove il passivo e l’aggressivo si concentrano sugli altri per diminuire il loro disagio.

L’assertivo dice “Io”, il passivo e l’aggressivo dicono sempre “Tu”: “Tu mi fai star male”, “Tu non mi capisci”. Notate la differenza tra il dire con fermezza: "Sono esasperato dal tuo modo di fare!" e: "Sei un gran maleducato…”. Le persone che esitano perché non sanno cosa dire, scoprono che la pratica del dire qualcosa, dell'esprimere i propri sentimenti sul momento, è un apprezzabile gradino verso una maggiore assertività.

L’assertivo parla dei suoi sentimenti personali, non di "cose oggettivamente giuste". Non fa la predica agli altri su ciò che è giusto e ciò che è sbaglia­to, ma si concentra sulla proprie inclinazioni personali, senza considerarle regole universali. Usa frasi che iniziano con “Mi sento”: “Mi fa arrabbiare che tu... Non mi piace che tu...”. Non si mette sulla difensiva, non giustifica troppo le sue emo­zioni, può però fornire ragioni. Inoltre, chiede cambiamenti specifici di comportamento. Esprime esatta­mente all'altro cosa si aspetta che faccia per risolvere la situazione, consapevole che le sue richieste possono essere rifiutate.

Critica i comportamenti, non le persone. Dice: "Non mi piace che butti a terra i calzini", non: "Sei disordinato". Sa quali sono i suoi scopi. Se l'altro protesta, ha imparato a rimanere semplicemente sulla sua posizione, continuando a non perdere di vista il suo obiettivo. Le persone hanno il diritto, ma non l’obbligo di essere assertive. Nelle scelte individuali siamo responsabili delle conseguenze delle nostre scelte. Ciò che è importante è l’esistenza o meno di una scelta reale.
Alcune persone non possono scegliere di essere assertive a causa dell’ansia, di scarse abilità sociali o di rigide convinzioni su ciò che è giusto o sbagliato. La meta finale è esprimere noi stessi onestamente e spontaneamente e allo stesso tempo incoraggiare ed accettare questo comportamento negli altri.

Lo stile di comunicazione aggressivo

I signori Rossi sono a pranzare in un ristorante. Il sig. Rossi ha ordinato una bistecca al sangue, ma quando gliela portano, la trova molto cotta, contrariamente a quanto aveva chiesto.
Il sig. Rossi chiama rabbiosamente il cameriere al suo tavolo. Lo riprende villanamente e ad alta voce per non aver eseguito il suo ordine. Le sue azioni ridicolizzano il cameriere ed imbarazzano la moglie. Egli pretende, e riceve, un'altra bistecca, questa secondo i suoi desideri. Sente di avere la situazione sotto controllo, ma l'imbarazzo della signora Rossi crea frizione fra di loro e rovina la serata. Il cameriere si sente umiliato ed arrabbiato e perde il suo equilibrio per il resto della serata.

Il sig. Rossi si è comportato aggressivamente. Essere aggressivo non vuol dire necessariamente esercitare violenza fisica sugli altri. Atteggiamenti, modi di fare e di esprimersi che hanno in comune la violazione dei diritti altrui e l’indifferenza nei confronti dei loro stati d’animo caratterizzano i comportamenti aggressivi.
Come nel caso del sig. Rossi, un atteggiamento aggressivo permette il più delle volte di ottenere ciò che si vuole. La persona aggressiva non riconoscere facilmente l’inadeguatezza del suo comportamento. Spesso non si rende conto del disagio che crea negli altri; per l’aggressivo “va tutto bene”, “non ci sono problemi” e se ci sono, “sono problemi degli altri”.
Queste persone, però, col tempo pagano le conseguenze del loro modo di comportarsi: si circondano di persone tanto più passive, quanto loro saranno più aggressive o creeranno attorno a sé terra bruciata, perché gli altri tenderanno ad evitare la loro compagnia. Costantemente centrata su di sé e, quindi, profondamente egocentrica, la persona aggressiva giudica gli altri degli inetti. Pertanto tende a entrare in conflitto con altri aggressivi e si circonda di passivi.
Essenzialmente considera i suoi giudizi alla stregua di leggi universali. Ad esempio, se “mi piace/ non mi piace” è un commento assertivo, “è bello/ fa schifo” è un tipico giudizio aggressivo: con i propri criteri, l’aggressivo giudica anche per gli altri (in realtà una cosa che può piacere a qualcuno, non è detto che possa piacere ad un altro).

Si è aggressivi quando: vogliamo che gli altri si comportino come fa piacere a noi; non modifichiamo la nostra opinione su qualcuno o qualcosa; decidiamo per gli altri senza ascoltare il parere degli interessasti; non accettiamo di poter sbagliare; non chiediamo “scusa” per un nostro eventuale errato comportamento; non ascoltiamo gli altri mentre parlano; interrompiamo frequentemente il nostro interlocutore; giudichiamo gli altri e li critichiamo; diamo consigli non richiesti; usiamo frasi “colpevolizzanti” e offensive; ci consideriamo i “migliori”; non accettiamo il punto di vista altrui, lasciamo poco spazio agli altri e tendiamo, anche inavvertitamente, ad imporci in continuazione.

Le persone aggressive dovrebbero imparare a distinguere tra le proprie opinioni e la realtà oggettiva: le cose non sono “belle o brutte”, “buone o cattive” di per sé, ma solo agli occhi di chi le giudica. Nel prossimo articolo approfondiremo lo stile assertivo.

Lo Stile di Comunicazione Passivo

I signori Rossi sono a pranzare in un ristorante.
Il sig. Rossi ha ordinato una bistecca al sangue, ma quando gliela portano, non la trova molto cotta, contrariamente a quanto aveva chiesto. Il sig. Rossi brontola con sua moglie per la carne "bruciacchiata" e osserva che non verrà più, in futuro, in quel ristorante. Non dice niente al cameriere, rispondendo "sì", quando questi gli chiede "se tutto andava bene".
Il pranzo e la serata del sig. Rossi sono rovinati ed egli si sente in colpa per non aver agito in nessuna maniera. La sua autostima e la stima di sua moglie in lui sono entrambe calate in seguito a questa esperienza. In questo caso il sig. Rossi si è comportato passivamente.

Per "comportamento passivo" s'intende, infatti, una persona che si contraddistingue per una serie di comportamenti che la portano a subire gli altri e a provare disagio. Subire gli altri può voler dire sia essere incapaci di dire no, sia essere incapaci di fare una richiesta o di esprimere le proprie idee, desideri e sentimenti come il sig. Rossi nell’esempio.
Un amico ci fa una richiesta, vorremmo rifiutare, ma diciamo ugualmente di "si"; ci fanno un complimento, proviamo disagio e non siamo in grado di rispondere; un conoscente esprime un’opinione che noi non condividiamo, vorremmo dire il nostro punto di vista, ma rinunciamo, sono tutti esempi di atteggiamenti e comportamenti passivi.

Ogni persona emette comportamenti passivi, aggressivi e assertivi a seconda delle situazioni: sul lavoro non diciamo quello che pensiamo al capoufficio che ci critica inferiorizzandoci, mentre in famiglia non ci pensiamo due volte a rimproverare aspramente un nostro caro. Ognuno di noi, però, ha la tendenza a manifestare comportamenti di un tipo, piuttosto che di un altro; si avranno, perciò, persone essenzialmente passive, altre aggressive, altre ancora, assertive.

La “persona passiva” riesce ad evitare o a far cessare un conflitto che può produrre ansia e può essere lodata dagli altri per il fatto di essere una persona che non crea mai problemi, ma tende ad inibire le proprie emozioni (dalla rabbia, all’affetto, alla scontentezza, alla gioia, all’amore, ecc.) a causa di momenti di imbarazzo, tensione, ansia o di sentimenti di colpa. Il risultato è che una persona che si comporta in maniera passiva difficilmente riesce a soddisfare un suo bisogno o un suo desiderio, ad instaurare rapporti con gli altri, a dire la sua opinione o ad accettare un complimento senza sminuirlo.
Spesso si sente “oppressa” e intimorita dagli altri e si scusa anche quando non è il caso, ha paura di sbagliare, ritiene che gli altri siano migliori di lei, ha bisogno dell'approvazione altrui, ha paura dal giudizio e teme le critiche. Inoltre, prova disagio alla presenza di persone che non conosce bene, ha difficoltà nel prendere decisioni e dopo aver aggredito una persona, si sente in colpa.
La frustrazione provata nelle relazioni può portare l’individuo passivo a sentirsi impotente e a sviluppare un'immagine di sé negativa. Ciò lo spingerà ad isolarsi sempre di più, a mantenere una bassa autostima e di conseguenza a continuare ad emettere comportamenti passivi. Non bisogna certo riconoscersi in tutte le caratteristiche citate per definirsi una persona passiva. Una volta individuati, però, questi comportamenti e le convinzioni rigide su di sé e sugli altri che contribuiscono a mantenerli nel tempo è possibile modificare se stessi ed eliminare il disagio provato. Nel prossimo articolo approfondiremo lo stile aggressivo.

domenica 25 gennaio 2009

Lo stile di attaccamento ansioso-resistente

La qualità delle nostre relazioni è determinata dal tipo di attaccamento che si instaura con la “figura di attaccamento”. Il sistema motivazionale dell’attaccamento è un sistema biologicamente preordinato a ricercare la vicinanza delle figure di protezione e di accudimento. E’ attivo sin dalla nascita, e collegato a questo è il sistema motivazionale dell’esplorazione che spinge verso la conoscenza del mondo.

Gli stili di attaccamento più diffusi e conosciuti sono tre: sicuro, evitante e resistente alla separazione.
Quando non vi è la certezza che la figura di attaccamento sia disponibile a rispondere ad una richiesta di aiuto si può sviluppare un legame insicuro ansioso-resistente, cioè resistente alla separazione.. Questo stile relazionale è favorito da una figura di attaccamento che è disponibile solo in alcune occasioni o che di frequente si allontana e rimane separata dal piccolo o che lo minacciano di abbandono, vero o presunto, come mezzo coercitivo. Solitamente la madre tende ad essere iperprotettiva, inibendo di fato l’attività esplorativa del figlio o imprevedibile presentando comportamenti discontinui nelle sue risposte alle richieste del bambino, alternando momenti in cui lo accudisce a momenti in cui mostra insensibilità alle suoi bisogni. Il bambino si sente incerto, esitante nell’esplorare il mondo ed è incline all’ansia da separazione e mostra difficoltà a consolarsi al ritorno della figura di attaccamento, continuando a piangere per lungo tempo.

I tratti che maggiormente caratterizzano questo stile di attaccamento sono: insicurezza nell’esplorazione del mondo, convinzione di non essere adeguatamente amabile, incapacità di sopportare distacchi prolungati, ansia di abbandono, sfiducia nelle proprie capacità, tendenza alla dipendenza dagli altri, tendenza a segnalare eccessivamente i propri bisogni e le proprie debolezze allo scopo di attirare maggiormente l’attenzione su di sé per aumentare la probabilità che la figura di attaccamento si avvicini, dia sostegno e continui a darlo nel tempo.

mercoledì 7 gennaio 2009

La Teoria dell'Attaccamento



Secondo la teoria dell’attaccamento di Bowlby, una delle più accreditate e scientificamente fondate teorie psicologiche, lo stile di relazione che un bambino sviluppa dalla nascita in poi dipende in grande parte dal modo in cui i genitori (o altre figure di riferimento) interagiscono con lui. In particolare, la qualità delle nostre relazioni è determinata dal tipo di attaccamento che si instaura con la “figura di attaccamento”.

Bowlby descrive il comportamento di attaccamento come “quella forma di comportamento che si manifesta in una persona che consegue o mantiene una prossimità nei confronti di un’altra, chiaramente identificata, ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato. Questo comportamento diventa evidente ogni volta che la persona è spaventata, affaticata o malata e si attenua quando si ricevono conforto e cure”.

L’attaccamento è parte integrante del comportamento umano “dalla culla alla tomba” ed è destinato a rimanere relativamente stabile durante lo sviluppo. L’uomo possiede dei sistemi motivazionali, a base innata, che guidano i comportamenti verso il raggiungimento di determinati scopi necessari alla propria sopravvivenza.

Una di questi sistemi è quello dell’attaccamento, il cui scopo sarebbe quello di garantire e mantenere la vicinanza e la protezione della figura di attaccamento. Il suo complementare è il sistema di accudimento, che, attivandosi nell’adulto, renderebbe disponibile la figura di attaccamento alla protezione e alla difesa dalle minacce ambientali.

Attraverso l’esperienza di ripetute relazioni con le figure di attaccamento il bambino consolida un insieme di memorie di relazione, che veicolano i significati che ha imparato ad attribuire alle emozioni di attaccamento, alle risposte dell’altro ed alle aspettative su ciò che seguirà a tali iniziali risposte. A seconda, quindi, delle risposte (positive o negative) delle figure di attaccamento alla richiesta di cure e protezione, si svilupperà un tipo di legame affettivo piuttosto che un altro. Il tipo di legame e le relative memorie del legame finiscono per imbrigliare entro percorsi obbligatori la lettura del mondo e delle relazioni da parte dell’individuo. La ricerca scientifica ha dimostrato l’esistenza di quattro generali tipi di attaccamento: uno sicuro, gli altri insicuri (evitante, ambivalente e disorganizzato). Va da sé che il tipo insicuro, generalmente è il legame di attaccamento che predispone allo sviluppo di problemi emotivi e psicologici. Nei prossimi articoli ne approfondiremo le caratteristiche salienti.