mercoledì 24 giugno 2009

Rispondere alle critiche (prima parte).

A tutti prima o poi nella vita capita di trovarsi in situazioni sociali che creano disagio. In queste situazioni ciò che facciamo e diciamo può non soddisfarci pienamente, col risultato di stare ancora più male. Ci sono particolari situazioni in cui si è oggetto delle critiche altrui. Come abbiamo approfondito negli articoli precedenti non si può scappare dalle critiche, costruttive o manipolative che siano, dunque è saggio e salutare accettarle e analizzarle.

Le persone passive quando vengono criticate ricercano la benevolenza degli altri, stanno zitti e sembrano accettarla. Tuttavia dentro di loro possono essere furiose, sofferenti o forse desiderose di ulteriori spiegazioni. Altre persone accettano tutte le critiche come fossero automaticamente vere e tentano di cambiare se stessi per piacere agli altri. Questo è pericoloso, specialmente se una critica è ingiustificata o non corretta.

Le persone aggressive, al contrario, scatenano immediatamente un attacco, mentre le persone assertive accettano una critica, riconoscono se è costruttiva o manipolativa e, in quest’ultimo caso, sono in grado di renderla costruttiva, senza eccessivo coinvolgimento emotivo e non permettendo che la loro dignità o integrità ne venga intaccata.

Diverse sono le tecniche verbali di comunicazione assertiva che si possono apprendere per gestire una critica manipolativa. Tra le più comuni ci sono il disco rotto, l’asserzione negativa, l’annebbiamento e l’inchiesta negativa.
La tecnica del disco rotto è utile per rimanere concentrati sull’obiettivo dell’interazione (ciò che si vuole ottenere dalla relazione con l’altro). A volte è necessario ripetere con calma il proprio punto di vista, usando sempre le stesse parole, senza farsi coinvolgere dalle strategie manipolative dell’altro. Allo stesso modo, è utile usare questa tecnica allorché facciamo una richiesta che è in nostro diritto esigere. Inoltre è una tecnica che può essere usata per fare richieste, rifiuti ed esprimere il proprio punto di vista. Il disco rotto è particolarmente utile quando si pensa che non si sta ottenendo ciò a cui si ha diritto o quando l’altra persona spesso usa interrompere o attaccare verbalmente. Dal momento che bisogna solo ripetersi, il disco rotto è molto semplice da usare.

Quando si viene insultati, o si ricevono dei giudizi negativi, di solito si desidera difendersi, o ci si sente così feriti da ritirarsi. Con l’asserzione negativa, invece, ammettiamo il nostro errore e ci scusiamo. Questa tecnica riduce l’ostilità e tende a estinguere la manipolazione. L'asserzione negativa è come un arte marziale, dove si usa la potenza del proprio antagonista per volgere la situazione a proprio vantaggio. Nessuno è perfetto, così nell'asserzione negativa tutto ciò che si fa è accettare la parte dell'affermazione altrui, insulto o etichetta che sia, in modo realistico. Vediamo alcuni esempi dell’uso della tecnica: "Se pensi questo, devi essere stupido", asserzione negativa: "Ammetto di non essere la persona più intelligente del mondo". "Commetti sempre degli errori", A.N.: “Si, qualche volta faccio degli errori". “Sei pigro", A.N.: “Non ho mai sostenuto di essere la persona più accanita nel lavoro".
Nei prossimi articoli approfondiremo altre tecniche assertive.

giovedì 4 giugno 2009

L'ABC delle emozioni.



Supponiamo di stare aspettando una telefonata da un nostro caro amico. Siamo in attesa di sapere a che ora passerà a prenderci stasera per andare ad una festa. Ha detto che ci chiamerà fra un paio d’ore. Il tempo passa e l’amico non si fa sentire. Le ore trascorrono e il telefono non squilla…
Come potremmo reagire alla situazione?

Potremmo essere preoccupati, arrabbiati, tristi o anche sollevati.

Come è possibile provare emozioni così diverse per una medesima situazione?

Cerchiamo di esaminare bene tutta la sequenza. Il fatto che l’amico non ci ha chiamato all’ora prefissata è l’evento iniziale, scatenate o attivante la sequenza. Chiamiamo questo evento il punto A della sequenza.
La rabbia è uno dei modi in cui ci siamo sentiti in conseguenza al verificarsi di A, cioè un’emozione. Chiamiamo l’emozione il punto C della sequenza.

Molte persone sono convinte che sia l’evento A a scatenare l’emozione C, ossia che A causi C.
Questo è un modo per spiegare le proprie emozioni: “mi sono arrabbiato, perché non mi ha chiamato!” Ma è un modo impreciso, perchè non chiarisce come sia possibile provare diverse emozioni a causa di situazioni uguali o come persone diverse possano provare emozioni diverse nella stessa situazione. Potremmo infatti dire, allo stesso modo: “Sono triste, perché non mi ha chiamato.”
Dimentichiamo infatti un elemento importante della sequenza: quando ci accade qualcosa, noi pensiamo a quanto accade in un certo modo.

Ad esempio, la telefonata non arriva e ci rattristiamo, perché potremmo pensare: “Si è dimenticato di chiamarmi, non sono un grande amico per lui”. Oppure ci preoccupiamo: “Come mai non telefona, gli sarà successo qualcosa?”. O ci arrabbiamo, se pensassimo qualcosa tipo: “Non è così che si fa, è un maleducato!”. Potremmo perfino essere contenti se alla mancata telefonata (l’evento A) pensassimo: “Meno male che non ha telefonato. Non avevo proprio voglia di andare alla festa…”.
Perciò chiamiamo i pensieri il punto B della sequenza, l’elemento che sta in mezzo, tra il punto A, l’evento scatenate e il punto C, le emozioni.

La sequenza A-B-C così sintetizzata è un modo più preciso di spiegare le emozioni che proviamo in un dato momento.
Il modello ABC, alla base della psicologia cognitiva, sostiene infatti che le nostre emozioni derivano non tanto da ciò che ci accade, ma dal modo in cui interpretiamo e valutiamo ciò che ci accade. Ecco perché la spiegazione comune per cui A causerebbe C è inesatta. Per capire le proprie reazioni emotive è necessario andare a vedere cosa è successo al punto B, cioè iniziare a chiedersi quale insieme di pensieri su ciò che è successo è presente nella propria mente.

Questo è il primo passo per aumentare la consapevolezza delle proprie reazioni emotive e comportamentali e per comprendere le specifiche relazioni esistenti tra pensieri e sentimenti che stanno alla base dei problemi psicologici.

Il Disturbo da Deficit dell'Attenzione e Iperattività (introduzione).



Immaginate di vivere in un caleidoscopio in veloce movimento, dove suoni, immagini e pensieri cambiano costantemente. Di provare noia facilmente, di non riuscire a rimanere concentrati sulle attività che bisogna completare. Di essere distratti da suoni e stimoli visivi, in modo tale che la vostra attenzione si sposta repentinamente da un pensiero all’altro, da un‘attività all’altra. Forse siete così coinvolti in un’intricata rete di pensieri e immagini che non vi accorgete quando qualcuno parla con voi.

Per molte persone, soffrire di queste caratteristiche vuol dire essere affetti da un Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività o DDAI (ADHD in inglese). Queste persone possono essere incapaci a rimanere sedute e ferme, a progettare in anticipo, a finire le attività che si sono iniziate, o a essere pienamente consapevoli di quello che sta accadendo loro intorno. Agli occhi dei loro familiari, compagni di classe, o colleghi di lavoro, esse sembrano vivere in un turbine di attività disorganizzate e frenetiche. Inaspettatamente (alcuni giorni e in alcune situazioni) sembrano stare bene e ciò lascia presupporre che le persone con DDAI, in realtà, siano in grado di controllare i loro comportamenti. Come risultato, il disturbo può rovinare le relazioni interpersonali di queste persone, oltre che limitare e distrugger loro la vita, prosciugarli di energia, e diminuire l’autostima.

Il DDAI, un tempo chiamato disfunzione cerebrale minimale o ipercinesi, è uno dei più comuni disturbi mentali tra i bambini e i ragazzi. Colpisce dal 3 al 5% dei bambini, circa 2 milioni di bambini americani. I maschi sono colpiti in proporzione due o tre volte di più delle femmine. Negli Stati Uniti, in media, almeno un bambino in ogni classe soffre di questo disturbo e ha bisogno di aiuto. Spesso l’DDAI continua nell’adolescenza e in età adulta, e può interferire significativamente nella vita quotidiana, causando intense sofferenze emotive e distruggendo sogni e speranze.
Ma c’è aiuto e speranza. Nell’ultimo decennio, gli scienziati hanno imparato molto sul decorso del disturbo e sono ora in grado di identificarlo e trattare i bambini, gli adolescenti e gli adulti che ne soffrono. Un’ampia gamma di farmaci, terapie di modificazione comportamentale e opzioni educative sono attualmente disponibili per aiutare le persone con DDAI a focalizzare la loro attenzione, ad aumentare la loro autostima e ad acquisire nuove capacità e abilità per migliorare la qualità della vita.

Questo articolo è parte della traduzione dall’inglese (eseguita da me, insieme ad alcuni colleghi) di un documento di pubblico dominio realizzato dall’Istituto Nazionale di Salute Mentale (NIMH), che potete trovare in originale visitando il sito www.nimh.nih.gov. Il NIMH è l’Agenzia Federale del Governo degli Stati Uniti, che finanzia e costituisce ricerche nazionali per comprendere le interrelazioni tra le varie regioni del cervello e le loro funzioni, per sviluppare misure preventive e nuovi trattamenti per superare i disturbi mentali che limitano le persone a scuola, al lavoro e nel tempo libero. In sintonia con lo spirito di quei ricercatori, motivati a divulgare una conoscenza scientifica dei problemi comportamentali e psicologici, nel prossimo articolo approfondiremo le caratteristiche del DDAI.

Il Mobbing. Come riconoscerlo.

Il Mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato, colui che subisce queste azioni, si trova nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente.

Varie sono le patologie medico-psichiatriche che possono derivare direttamente dal Mobbing. Tra le più comuni, la ricerca evidenzia: manifestazione psicosomatiche (che sono le prime a svilupparsi), come la perdita di concentrazione, di memoria, turbe del sonno, cefalee, sudorazione; agitazione e/o irrequietezza; ansia e depressione con fissazione del pensiero sul proprio problema; disturbi comportamentali che impediscono l’esercitazione dell’attività lavorativa (attacchi di panico, disistima, ecc…) e alterazioni della personalità (fino al suicidio).

Il “Metodo Edge 2002” è una delle procedure più originali ed efficaci per la determinazione del Mobbing, in quanto permette di riconoscere scientificamente la presenza del Mobbing in una vicenda lavorativa attraverso la verifica empirica di sette parametri tassativi; quindi, mediante un processo matematico rigoroso, di percentualizzare la cosiddetta lesione Accertata da Mobbing totale permanente e successivamente di quantificare tale valore ai fini giuridici risarcitori.

I sette parametri per il riconoscimento del Mobbing sono i seguenti:

* 1. Ambiente lavorativo (il conflitto deve svolgersi sul posto di lavoro);
* 2. Frequenza (le azioni ostili devono accadere almeno alcune volte al mese, salvo caso del "sasso nello stagno");
* 3. Durata (il conflitto deve essere in corso da almeno sei mesi; almeno tre mesi nel caso del "Quick Mobbing");
* 4. Tipo di azioni
(le azioni subite devono appartenere ad almeno due delle cinque categorie del "LIPT Ege": attacchi alla comunicazione, alle relazioni sociali, all’immagine sociale, alla qualità della situazione professionale e privata, e alla salute, salvo il caso del "sasso nello stagno");
* 5. Dislivello tra gli antagonisti (la vittima è in una posizione costante di inferiorità, i protagonisti del conflitto non si fronteggiano ad armi pari, ossia non si dimostrano entrambi in grado di difendersi e di attaccare.);
* 6. Andamento secondo fasi successive (la vicenda ha raggiunto almeno la II fase, "L'inizio del Mobbing" del modello italiano Ege a sei fasi: conflitto mirato, inizio, primi sintomi psicosomatici, errori ed abusi dell’Amministrazione del Personale, serio aggravamento della salute psicofisica della vittima, esclusione dal mondo del lavoro);
* 7. Intento persecutorio (nella vicenda deve essere riscontrabile da parte dell’aggressore un disegno vessatorio coerente e finalizzato, composto da un chiaro scopo negativo volto ad ottenere un danno nei confronti della vittima con obiettivo conflittuale e carica soggettiva ed emotiva costituita dalle azioni vessatorie).