mercoledì 24 dicembre 2008

Assertività: saper comunicare con gli altri

Assertività significa vivere con serenità i nostri rapporti con gli altri con l’equilibrio di chi non subisce e non aggredisce; sostenere la propria integrità e dignità e allo stesso tempo incoraggiare ed accettare questo comportamento negli altri.
Comportarsi in modo assertivo vuol dire bilanciare i bisogni degli altri coi propri.

E’ un’interazione in cui non c’è uno sconfitto e un vincente, ma entrambi gli interlocutori della relazione sono vincenti. Generalmente si è passivi quando costantemente si antepongono i bisogni degli altri ai propri, si è aggressivi quando si antepongono i propri bisogni a quelli altrui, minimizzandoli o non considerandoli e si assertivi quando si equilibrano i propri e gli altrui bisogni e si agisce secondo le priorità che emergono, si può scegliere, cioè, se dare la priorità alle necessità altrui o se considerare maggiormente le proprie necessità.

Alla base dell’assertività ci sono una serie di abilità sociali, tra le quali, chiedere ciò che si desidera, rifiutare ciò che non si vuole ed esprimere i propri desideri positivi e negativi agli altri. Dato che il comportamento assertivo implica un’interazione con un’altra persona, esso implica il possesso e soprattutto la capacità di attuare nella vita di tutti i giorni queste abilità.

Tutti noi siamo d’accordo che nei rapporti interpersonali non sia corretto subire o aggredire gli altri. Inoltre, siamo consapevoli che lo stile di comunicazione ha molto a che fare con il modo in cui si dicono le cose. Infatti se il “come” piace, si ascolterà anche il “che cosa”.

Ma anche se il più delle volte siamo capaci a padroneggiare alcune abilità verbali e non verbali, quando ci troviamo in una situazione per noi difficile, può succedere che proviamo disagio e finiamo con l’emettere comportamenti non adeguati o sbagliati, domandandoci spesso: “Avrei potuto comportarmi diversamente?”, col risultato di sentirci peggio.
Alcune persone provano disagio nelle situazioni sociali in maniera così costante da sviluppare una cronica insicurezza personale e da fuggire nell’isolamento, con conseguenze negative sull’autostima. Altre, invece, non vivono in prima persona il disagio, ma con il loro comportamento creano disagio negli altri; col tempo queste persone vengono evitate e si ritrovano sole, senza neanche sapere perché. In definitiva comportamenti passivi e aggressivi portano entrambi all’infelicità.

Conoscere e lavorare sull’Assertività è un vero e proprio programma di incremento delle proprie abilità sociali e di miglioramento personale, il cui obiettivo è il raggiungimento della consapevolezza degli stili comunicativi necessari per poter gestire la propria vita sociale in modo adeguato, ossia senza provare disagio o senza creare disagio negli altri. Nei successivi articoli approfondiremo le caratteristiche degli stili assertivo, passivo e aggressivo.

giovedì 20 novembre 2008

Che cos'è una Fobia




Il termine fobia deriva dal greco “phobos” che significa panico, terrore, fuga.

Ha inoltre la sua radice in una divinità dallo stesso nome che incuteva terrore ai nemici; i guerrieri dipingevano la sua effigie sulle armi. Ancora oggi il termine mantiene il significato originario.

Sanavio e i suoi collaboratori (1986) definiscono la paura come un fenomeno normale e adattivo atto a proteggere l'individuo dal pericolo, uno stato transitorio dell'individuo esplicitamente connesso a condizioni specifiche o situazioni-stimolo definite: la risposta di paura cessa nel momento in cui tali situazioni vengono a cessare.

Nel soggetto fobico sono presenti invece risposte soggettive, fisiologiche e di evitamento molto più accentuate rispetto al soggetto che ha semplicemente paura di determinate situazioni.


In particolare, Marks (1969) individua i seguenti elementi semiologici, utili a comprenderne la specificità. Una fobia:

  1. È sproporzionata rispetto alla realtà della situazione.
    Ciò significa che la maggior parte delle persone reagirebbe con indifferenza o bassi livelli di ansia agli stessi stimoli. (es.: il claustrofobico non riesce a fare una cosa per noi molto facile: prendere l’ascensore).
  2. Non può essere controllata mediante un'analisi razionale.
    Spiegare la genesi del disturbo, i meccanismi di mantenimento, la non pericolosità delle situazioni temute e l’assurdità della paura non riduce in alcun modo il problema.
  3. Sfugge al controllo volontario.
    Vani sono gli appelli all’autocontrollo. Il fobico reagisce ai segnali di pericolo con risposte apprese che hanno carattere di automatismo. Egli non è in grado di controllare le alterazioni del sistema nervoso autonomo quali il battito cardiaco, respirazione, pressione sanguigna, sudorazione, temperatura, tensione muscolare, scariche di adrenalina, ecc. Tutte queste risposte fisiologiche elicitate dallo stimolo fobico sono il risultato di un apprendimento (condizionamento classico). Il loro effetto congiunto è talmente potente e rapido da far stare male il fobico e indurlo alla fuga.
  4. Produce l'evitamento della situazione temuta.
    La fuga è una strategia di emergenza. Generalmente il fobico prevede in modo accurato tutte le situazioni che lo possono mettere in ansia e le evita sistematicamente. La sua vita può subire forti limitazioni in funzione di questa strategia. L’agorafobico che non esce di casa perde il lavoro, gli amici, gli abituali svaghi. Il bambino con la fobia della scuola è danneggiato nell’apprendimento.

Inoltre, una fobia permane per un periodo prolungato di tempo senza risolversi o attenuarsi; comporta un certo grado di disadattamento per l'interessato e infine l'individuo riconosce che la paura è irragionevole e che non è dovuta a effettiva pericolosità dell'oggetto, attività o situazione temuta.

martedì 11 novembre 2008

Perchè ci si ammala di Anoressia e Bulimia? (2 di 2)

Il Disturbo del Comportamento Alimentare (vera e propria patologia di origine psichica che coivolge il corpo in modi drammatici e a volte tragici) diviene un'autocura, un'autoterapia che la persona adotta come soluzione della valutazione negativa di sé, del bisogno di sentirsi accettati, efficaci e di esprimersi nel mondo.

E' come se le persone che soffrono di questo disturbo lasciassero entrare in casa propria la malattia con i suoi sintomi dandole le chiavi, perchè questa promette loro di raggiungere i propri obiettivi, convincendole che grazie ad essa potranno finalmente piacersi, sentirsi efficaci e forti, potranno esprimersi come persone indipendenti e autonome, potranno acquisire quel valore personale tanto agognato, quanto non percepito.

Tutto ciò controllando (solo) il proprio corpo e il proprio peso...

Questa soluzione, che all'inizio della sua messa in pratica, offre qualche risultato che farebbe ben sperare per il futuro, dimostra tutta la sua inefficacia col tempo, quando l'accadere di eventi e situzioni della vita rendono lo scopo del controllo assoluto difficile da realizzare.

Coloro che adottano questa soluzione (falsa), più percepisco di non riuscire a tenere tutto sotto controllo (e prima o poi succede a tutti), più la paura di non farcela aumenta, così come si intensifica il timore di rinunciare alla malattia/soluzione, l'unico metodo che fino ad allora hanno sperimentato in grado di poterle fare stare bene (la similitudine con la dipendenza dalle droghe è molto forte).
In questo contesto, le relazioni con gli altri sono sempre più minacciose, perchè queste persone potrebbero fallire nel loro progetto esistenziale di controllo e rivelare al mondo e a se stesse il proprio fallimento, la propria incapacità e inadeguatezza (come evidenziato nella prima parte dell'articolo).

Ecco che allora rinforzano il controllo al fine di mantenere alta l'autostima restringendo la propria attenzione e i propri sforzi per raggiungere e/o mantenere un certo peso, certe forme corporee e un certo controllo alimentare, perpetuando circoli viziosi di mantenimento dei sintomi. La loro mente non ha spazio per altri pensieri è invasa dalla malattia, la quale, paradossalmente invitata ad entrare, ora comanda e detta leggee non ha nessuna intenzione di sloggiare.

La persona ha creduto (e in molti casi ancora crede) che tramite la "soluzione anoressica" poteva ottenere un controllo sulla propria vita; beffardamente è la malattia che "controlla" la persona.

sabato 8 novembre 2008

Perchè ci si ammala di Anoressia e Bulimia? (1 di 2)


Le persone che soffrono di anoressia e bulimia sono generalmente ansiose, intensamente timorose di sbagliare. Questa tendenza ad evitare gli errori è sorretta da un'intensa paura perchè per loro, commettere uno sbaglio, significa essere un fallimento totale come persona.
Inoltre, queste ragazze e questi ragazzi non hanno paura di un evento particolare, ma temono di non essere in grado di controllare il proprio comportamento, le proprie emozioni, di non emettere comportamenti adeguati e di lasciar intravedere agli altri con troppa evidenza ciò che spesso pensano di se stessi: idee personali di inferiorità e inadeguatezza ed emozioni di ansia e vergogna. Infatti, ogni volta che queste persone si trovano in una relazione in cui si può essere giudicati o si rischia di provare una forte delusione, ogni emozione dell’area del giudizio (vergogna, colpa), blocca il pensiero.
Le emozioni, perciò, non vengono pensate e non viene loro attribuito un senso (permettendo di evolversi in sentimenti), ma provate nella loro totalità e concretezza, intense e continue e quasi sempre vengono attribuite al corpo (ad es. “sono triste”, può diventare “sono brutta e grassa”).
Avendo difficoltà a dare un nome a ciò che si prova, le aspettative che si possono intuire negli altri diventano il mezzo per fare chiarezza su quello che si sta provando. Il senso di sé, viene quindi definito su un criterio esterno: le aspettative altrui. Il giudizio altrui diventa la valutazione di sé e della propria identità.

Puntando tutto sull’esterno e non avendo una sufficiente abilità autoriflessiva, le aspettative che si percepiscono sono le più semplici e concrete: essere certi che gli altri ci vedano sempre in modo esclusivamente positivo.
Queste persone hanno imparato che un'intollerabile abbassamento dell'autostima può avvenire in ogni circostanza, per ogni errore commesso e ad ogni difficoltà nell'adeguarsi a standard elevati, ma paradossalmente il proprio senso di fallimento è conseguenza del proprio irrinunciabile progetto di non sbagliare mai (un vero e proprio perfezionismo patologico).

Il controllo assoluto diviene quindi un'intenzionale ricerca di soluzione all'incertezza e all'ansia di sbagliare.

Il bisogno degli altri per dimostrare che si è una persona di valore, entra in conflitto con l’intollerabilità che siano gli altri a decidere su dove si deve valere.

Può accadere, quindi, che all'aumento del senso di inadeguatezza personale si sommi l’esperienza di sentirsi in trappola, dominati e controllati dalle altre persone, in una vincolante relazione di dipendenza, in una dinamica tra compiacenza e ribellione, tra l’essere troppo vicini agli altri o troppo lontani.

La soluzione può perciò viene trovata nel riconoscimento del proprio valore da parte degli altri, ma solo su aspetti che la persona stessa decide.

E poiché sono pochi gli aspetti della propria vita su cui è possibile avere un controllo assoluto (anche se piacerebbe occuparsi personalmente di ogni aspetto della propria vita), l’attenzione viene rivolta verso se stessi in generale e verso il peso e l’alimentazione in particolare (e solo dopo aver raggiunto il peso ideale si avrà la certezza di poter farcela in tutto il resto).

giovedì 6 novembre 2008

Le trappole emotive dell'Abbandono e della Sfiducia



Continuiamo l'esplorazione delle “trappole emotive”, la cui origine e sviluppo è stata descritta in articoli precedenti.
Ricordo che “vivere in una trappola emotiva” è come finire all’interno di ripetitivi modi di pensare, di sentire, di comportarsi e di relazionarsi con se stessi e gli altri, tali da compromettere importanti aree del funzionamento affettivo, lavorativo e sociale.

Quando la mancanza di sicurezza fisica e psicologica viene a mancare nell’ambiente familiare e sociale in cui si è vissuti possono formarsi le trappole dell’Abbandono/Instabilità e/o della Sfiducia/Abuso.
In questi casi una o più esperienze di separazione e rifiuto, realmente provate o intensamente percepite nell'infanzia, sin dai primi mesi di vita, possono sviluppare nell'individuo l'aspettativa secondo la quale non è possibile prevedere se i propri bisogni di sicurezza, protezione, stabilità, cure, empatia, condivisione emotiva, accettazione e rispetto saranno soddisfatti o meno.
In genere, la famiglia d'origine è fredda, distaccata, rifiutante, non disponibile, isolata, esplosiva, imprevedibile o abusante. I genitori non sono disponibili in modo prevedibile, sia fisicamente, sia psicologicamente; i maltrattamenti e liti superano la norma; lutti e abbandoni sono prolungati. Minacce di abbandono e abuso possono derivare dalle persone su cui il bambino conta di più, che dovrebbero proteggerlo e prendersi cura di lui.
Le sensazioni che qualcosa di brutto possa accedere da un momento all’altro (instabilità), che non ci si sente al sicuro, la paura che chi si ama posa far loro del male o lasciarli, il senso di vulnerabilità e fragilità, sono le più comuni. Così come stati d’animo intensi e instabili e comportamenti impulsivi e autolesionistici. Da adulti chi ha queste trappole può sviluppare una forte dipendenza e attrazione dall’instabilità.

Cadere nell'Abbandono/Instabilità significa arrovellarsi o essere dominati dall'idea che le persone vi lasceranno e finirete col rimanere soli, senza legami affettivi; perché le persone che secondo voi dovrebbero garantire supporto e presenza sono percepite come instabili o imprevedibili. Oppure vengono sentite come incapaci di fornire supporto emotivo, presenza, forza o aiuto pratico in maniera continuativa, in quanto emotivamente instabili e imprevedibili (per es.: possono manifestare degli scoppi di rabbia), inaffidabili o presenti in maniera discontinua, perché in fin di vita, o perché vi abbandoneranno per qualcuno migliore di voi.
Le persone in preda alla Sfiducia/Abuso, invece, si aspettano che gli altri le facciano del male o commettano abusi nei loro confronti: le imbroglino, mentano, manipolino, umilino, le costringano a subire maltrattamenti o che in qualche modo si approfittino di loro. Hanno diffidenza nei confronti delle intenzioni altrui; temono che le persone amate le tradiscano; tengono una distanza di protezione, evitando le relazioni o intrattenendo solo relazioni superficiali, se non con persone che le trattano male, per poi provare rabbia e desiderio di vendetta.
In genere, implica la percezione del danno subito come intenzionalmente procurato dagli altri o come conseguenza di una negligenza ingiustificata. Può comprendere la sensazione di sentirsi sempre "fregati" dagli altri o di ottenere sempre "la fetta più piccola della torta".

giovedì 16 ottobre 2008

La paura dei sintomi


La persona che soffre di attacchi di panico è spaventata dai sintomi che avverte. Tende a catastrofizzare, pensa cioè alla conseguenze peggiori, senza possedere prove sufficienti. Il catastrofismo è altrimenti detto pensiero “e se …?“E se fosse un attacco di cuore?”, “E se soffro fino a morire?”.
I pensieri catastrofici aggravano i sintomi fisici, che a loro volta rafforzano i pensieri catastrofici in un circolo vizioso che può mantenere il panico per ore, facendo vivere la persona nella paura che qualcosa di terribile possa capitare. Ma le sue sono interpretazioni errate che condizionano il suo comportamento e in generale la sua vita.
Inoltre, una volta che l’attacco di panico è avvenuto, la persona presta attenzione in modo “selettivo” al proprio corpo al fine di cogliere i primi segna li di ansia e tende a preoccuparsi continuamente riguardo la possibilità di stare di nuovo male e sui propri sentimenti e sensazioni.
La persona è convinta che tale atteggiamento sia utile al fine di mettere in atto strategie che possono evitare il panico. Ad esempio: la persona si concentra sulla respirazione per verificare se respira bene e se ha abbastanza aria. Queste persone possono interpretare l’affanno e la mancanza di aria come segni di soffocamento.
Per evitare di morire soffocati respirano profondamente e controllano il proprio respiro per prevenire le conseguenze temute. In realtà, facilitano così i sintomi dell’iperventilazione, quali capogiri, fenomeni dissociativi, aumento della mancanza di respiro, …
Se l’idea era quella di prevenire un attacco di panico, in realtà attiva egli stesso i sintomi dell’ansia.
Infatti, la tendenza a concentrare l’attenzione sui sintomi corporei mantiene l’ansia. Il problema di questa tendenza è che la concentrazione su di sé intensifica lo stato emotivo e i sintomi fisici e può aumentare la difficoltà a pensare. Il fatto di concentrarsi sui sintomi e di essere eccessivamente consapevoli del proprio corpo può far sembrare allarmanti le sensazioni.
Una strategia efficace per superare questo problema consiste nel ridurre i livelli elevati di concentrazione su di sé. A questo scopo ci si può esercitare con una tecnica chiamata “training attentivo".


giovedì 2 ottobre 2008

Cosa fare durante un Attacco di Panico (2/2)

Il lettore che ha raccontato la sua esperienza, ha descritto perfettamente cosa può accadere in situazioni in cui si inizia a provare ansia e, soprattuttto, come è opportuno imparare a reagire per gestire l'ansia acuta.
Ciò che ha scritto è quello che tutti i miei pazienti mi auguro apprendano in terapia per iniziare a vivere vite più serene e tranquille, senza sentirsi ostaggio del panico.

Molto ci sarebbe da dire sull'episodio descritto, ma voglio sottolinearne due elementi fondamentali:

  • la capacità di rimanere nel presente riorientando la propria attenzione dai sintomi ansiosi a ciò che succede intorno a sé (astenendosi dal giudizio catastrofico circa le proprie sensazioni fisiche e le conseguenze sociali negative),
  • la modificazione del proprio dialogo interno al fine di creare spiegazioni alternative alal prima conclusione catastrofica formulata, responsaile, in gran parte, dell'aumento e del persistere dell'ansia provata).
Mi sembra che questo lettore stia lavorando bene, continui così.
Grazie della testimonianza.

Cosa fare durante un Attacco di Panico (1/2)

Riporto sotto forma di post, per rederlo più visibile a tutti gli interessati, un commento ad un mio articolo sull'ansia da parte di una persona che soffre di Attacchi di Panico, in cui descrive il modo più efficace per gestire un episodio di ansia acuta. Aseguire la mia risposta.

"Vorrei raccontare di come sono riuscita a gestire una crisi d’ansia; può darsi che possa essere spunto di riflessione per chi, come me, soffre di questo disturbo. Premetto che da tempo sono seguita da un terapeuta e che assumo una terapia farmacologica.

La situazione è questa: sono ad una conferenza dove non conosco nessuno. Prendo posto e comincio a seguire. Ho una strana sensazione addosso, non mi sento tranquilla, è come se tutte quelle facce sconosciute avessero gli occhi puntati su di me. Il mio disagio aumenta. Mi accorgo che dietro di me ci sono due persone che stanno parlando a voce bassa, quasi ridacchiando.

'Staranno sicuramente ridendo di me e dicendo che sono ridicola'
, penso.

Cerco di rimettermi a seguire i vari interventi, quando di colpo avverto dei tremori.
Comincio a temere di avere l’ennesima crisi di ansia.
Mi risistemo sulla poltrona, frugo dentro la borsa, faccio finta di prendere appunti, ma… niente, il tremore persiste. Sento che il mio cervello “sta partendo in quarta”: 'Tutti mi staranno guardando, staranno vedendo che sto tremando, penseranno che sono pazza e si chiederanno che cosa ci faccio qui.' Mi sento gelare, il cuore batte all’impazzata. Vorrei uscire dalla sala, ma allo stesso tempo l’idea di farlo mi blocca: sarei maggiormente sotto gli occhi tutti. E’ come se fossi in trappola.

Così, visto che non riesco a calmarmi, decido di arrendermi e di prendere il mio xanax. Ma mentre sto per inghiottire la pastiglia mi dico: “Non voglio cedere per l’ennesima volta. Potrei provare a reagire mettendo in pratica le strategie che mi sono state insegnate. Cercherò di fare del mio meglio”
Metto in atto il primo passo, ovvero, mi concentro sul presente: 'Sono seduta su una poltrona imbottita, dalla stoffa rossa e ruvida. Le braccia appoggiano sui braccioli, la schiena ben dritta contro lo schienale, sento il peso del mio corpo sulla poltrona…'

Mi accorgo che ho smesso di tremare. So che è già un buon risultato. Tuttavia continuo ad essere molto tesa.
Allora procedo con il secondo passo: provo a dialogare con me stessa, in modo indulgente, senza criticarmi: 'E’ vero quando mi trovo in situazioni simili mi capita di tremare. Sono una persona ansiosa e questa è solo una mia reazione. E’ una cosa poco piacevole, ma ripetermi “smettila di tremare!” non mi serve. Ora come ora non so se gli altri abbiano notato i miei tremori. Magari non mi stavano nemmeno guardando. Non posso saperlo. E comunque, anche l’avessero notato? Potrebbero semplicemente aver pensato: “Quella persona sta tremando”, non è detto che mi abbiano giudicata. E può darsi che quei due dietro di me stessero raccontando una cosa divertente che era successa in ufficio…'

Fatto sta che dopo una decina di minuti mi sento meglio, più rilassata. Ma soprattutto sono soddisfatta perché non ho ceduto del tutto alla mia ansia.
E’ davvero incredibile quanto i nostri pensieri possano influenzare le nostre reazioni."

domenica 14 settembre 2008

Le undici trappole emotive più comuni

“Vivere in una trappola emotiva” è come finire all’interno di ripetitivi modi di pensare, di sentire, di comportarsi e di relazionarsi con se stessi e gli altri, tali da compromettere importanti aree de funzionamento affettivo, lavorativo e sociale. I più comuni problemi portati dalle trappole li abbiamo visti nell’articolo precedente; ora proviamo a capire come si originano e quali sono le trappole.

Ogni bambino ha bisogni fondamentali che, se adeguatamente soddisfatti durante la propria crescita, gli consentiranno di avere uno sviluppo psicologico sano e positivo. Questi bisogni possono essere raggruppati in sei categorie:
  1. sicurezza di base;
  2. rapporti interpersonali;
  3. autonomia;
  4. autostima;
  5. espressione di sé;
  6. presenza di limiti realistici.

E’ come se venisse fatto qualcosa al bambino (o non fatto, in alcuni casi) da parte della propria famiglia o da altri, coetanei e adulti, e questo qualcosa perdura sin dalle prima fasi della vita come una sorta di tema dominante, una storia il cui finale altro non è che la ricostruzione delle condizioni della propria infanzia e adolescenza che hanno fatto stare più male.

Quando la mancanza di sicurezza fisica e psicologica viene a mancare nell’ambiente familiare e sociale in cui si è vissuti possono formarsi le trappole dell’Abbandono e/o della Sfiducia.

Quando si è incapaci di condurre una vita autonoma sono presenti le trappole della Dipendenza e/o della Vulnerabilità.

Le trappole della Deprivazione Emotiva e dell’Esclusione Sociale, invece, riguardano l’intensità e la qualità dei propri rapporti affettivi, intimi e sociali.

Difficoltà e problemi di autostima sono il segno della presenza delle trappole dell’Inadeguatezza e/o del Fallimento.

Quando si è incapaci di manifestare le proprie esigenze e soddisfare i propri bisogni abbiamo a che fare con le trappole della Sottomissione e/o degli Standard Severi Allorché si è incapaci o si hanno difficoltà ad accettare limiti realistici nella propria vita, si è alle prese con la trappola della Pretese.


Queste sono le trappole più comuni e si perpetuano principalmente perché danno origine a comportamenti e reazioni che si consolidano nel tempo per far fronte all’inadeguata soddisfazione dei bisogni di base.

Il modo in cui un bambino si adatta ad un ambiente “nocivo” sono tre:

  1. arrendendosi alla trappola,
  2. evitandola o
  3. ipercompensando la sua presenza.

Ad es. per fronteggiare la trappola di Inadeguatezza (il senso di essere cattivi, malvoluti, inferiori o incapaci, che può includere un’ipersensibilità alle critiche, al rifiuto e ai rimproveri; il sentirsi osservati, oggetto di paragoni e insicuri in contesti sociali; oppure un senso di vergogna dovuto alla perce­zione dei propri difetti) un bambino può:

  1. Arrendersi (continua ad essere criticato) > trova amici ipercritici;
  2. Evitare (non vuole provare il dolore della critica e del rifiuto che si aspetta dagli altri) > evita di stringere rapporti con le persone;
  3. Ipercompensare (agisce come se il pensiero opposto alla trappola fosse vero) > adotta un atteggiamento critico e superiore nei confronti degli altri.

Nei prossimi articoli approfondiremo il significato e l’esperienza di ciascuna trappola e come queste influiscono nella propria vita.

giovedì 11 settembre 2008

Le dimensioni dell'Autostima




Nell’articolo precedente abbiamo visto come l’autostima derivi dalla discrepanza tra il Sé percepito e il Sé ideale.


Il concetto di Sé, e di conseguenza l’autostima, è articolato in varie dimensioni correlate agli aspetti della vita che sono importanti per noi.


Le principali dimensioni dell’autostima riguardano:

L’autostima sociale (o interpersonale): comprende i sentimenti della persona riguardo a se stessa come amica di altri. Le altre persone la considerano simpatico? Apprezzano le sue idee? La ricercano per coinvolgerla in attività? E’ soddisfatta delle relazioni che intrattiene con gli altri?


L’autostima scolastica: è il valore che l’individuo attribuisce a se stesso come studente. Questa dimensione non è semplicemente una valutazione delle capacità e dei successi scolastici. Questi, infatti, vengono comparati con le proprie aspettative. Se si riesce a raggiungere i propri standard di successo scolastico (standard modellati dalla famiglia, dai compagni e dagli insegnanti), allora la propria autostima scolastica sarà positiva.


L’autostima familiare: riflette i vissuti che una persona prova come membro della propria famiglia. Chi sente di essere un membro apprezzato della sua famiglia, che dà il proprio contributo e che si sente certo dell’amore e del rispetto di genitori e fratelli, avrà un’alta autostima in questo ambito.


L’autostima corporea: è una combinazione di aspetto fisico e di abilità. Consiste nella soddisfazione che una persona prova rispetto al proprio corpo e alle proprie prestazioni. Culturalmente le ragazze sono più attente agli aspetti estetici e i ragazzi alle performance atletiche. Negli ultimi anni, però, i ruoli tradizionali stanno subendo dei cambiamenti.
L’insieme di queste valutazioni costituisce l’autostima globale quindi la propria idea (concetto) di Sé.


Le cause della bassa autostima possono essere dovute ad un ideale di Sé troppo elevato, ad una percezione distorta di Sé o ad un’oggettiva disabilità.

Migliorare l’autostima è possibile, ma è necessario individuare a quale livello e in quale dimensione deve essere posta la causa responsabile del basso livello di stima di sé. Così, una bassa autostima scolastica può essere compensata da una buona autostima sociale e familiare oppure una scarsa autostima corporea può essere compensata da un’alta autostima scolastica. L’eventuale intervento potrà perciò riguardare il ridimensionamento degli ideali irreali, la modificazione dell’autopercezione o il potenziamento delle abilità.

domenica 7 settembre 2008

I Disturbi del Comportamento Alimentare (alcuni dati)


I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono diventati un problema di rilevanza sociale. In Italia circa 65.000 donne (tra i 15 e i 24 anni) soffrono di Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa: si stimano 8.500 nuovi casi all’anno.

Non si tratta tuttavia di un problema solo femminile, si rileva, infatti, un aumento di incidenza anche tra gli uomini (il 5 e il 15% delle persone con anoressia o bulimia e circa il 35% delle persone con disturbo da alimentazione incontrollata).

I DCA più diffusi sono l'anoressia nervosa, la bulimia nervosa e il disturbo da alimentazione incontrollata. Essi sono frequentemente associati a depressione, abuso di sostanze e disturbi d'ansia (ossessioni e compulsioni e fobie sociali in particolare).
Inoltre, le persone affette da DCA soffrono spesso di complicazioni a livello fisico, come patologie cardiache e insufficienza renale, che possono condurre alla morte.

I DCA non sono dovuti a mancanza di volontà.

Sono vere e proprie malattie curabili nelle quali certe abitudini alimentari errate diventano schemi comportamentali disadattivi fuori dal controllo dell'individuo.

DCA si sviluppano frequentemente durante l'adolescenza e la prima età adulta, anche se alcune ricerche indicano la possibilità del loro sviluppo sin dall'infanzia e anche nella maturità.

Nell’adolescenza, quando ci si confronta con il mondo esterno e si deve costruire il senso della propria identità adulta, il desiderio di avere un corpo adeguato alle aspettative altrui è una tematica frequente. Autostima, senso del proprio corpo e comportamento alimentare sono, soprattutto in quell’età, strettamente legati.

L’Anoressia Nervosa (AN) è caratterizzata:

  1. dal rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso minimo normale per l'età e la statura;
  2. dall’intensa paura di acquistare peso o di diventare grassi, anche quando si è sottopeso;
  3. dall’alterazione del modo in cui il soggetto vive il peso o la forma del corpo;
  4. dall’eccessiva influenza del peso e della forma del corpo sui livelli di autostima o dal rifiuto di ammettere la gravità della attuale condizione di sottopeso e da cicli mestruali rari o assenti.

Il fatto stesso di mangiare diventa un'ossessione. Vengono, infatti, sviluppate abitudini alimentari inconsuete come saltare i pasti, evitare il cibo, scegliere determinati cibi e mangiare solo quelli ritenuti “non pericolosi” in piccole quantità oppure pesare attentamente ogni porzione di cibo.

Vi può essere la tendenza a controllare il proprio peso continuamente oppure ad impegnarsi in altre strategie per mantenere il peso sotto controllo, come la pratica intensa e compulsiva di esercizio fisico, il purgarsi con il vomito, i lassativi o i diuretici.

Il tasso di mortalità fra persone con AN è stato stimato intorno allo 0,56% per anno, percentuale che è circa 12 volte maggiore della mortalità media annua della popolazione femminile dovuta a cause di vario tipo nella fascia di età 15-24 anni. Le più comuni cause di decesso sono dovute a complicazioni del disturbo, come arresti cardiaci o scompensi elettrolitici e suicidio.

I DCA possono essere curati e il peso regolare ristabilito con appropriati interventi. Quanto prima questi disturbi vengono individuati ed affrontati, tanto migliori saranno i risultati della terapia.
A causa della loro complessità i DCA devono essere affrontati con un approccio multidisciplinare che comprenda cure e monitoraggio medico, psicoterapia, consulenza nutrizionale e, se necessaria, la somministrazione di farmaci.

L'Autostima


L’autostima è il risultato della valutazione delle informazioni contenute nel concetto di sé, ossia la costellazione di elementi cui una persona fa riferimento per descrivere se stessa.


Le informazioni riguardano le proprie prestazioni e le esperienze apprese in relazione agli eventi e alle situazioni nei vari contesti di vita in cui la persona interagisce (familiare, sociale, scolastico, lavorativo, sportivo, ecc…). La valutazione è sia soggettiva, cioè personale e autonoma, sia dipendente dalla reazione e dal giudizio altrui alle proprie prestazioni.


È possibile esaminare la formazione dell’autostima pensando al Sé percepito e al Sé ideale.
Il Sé percepito equivale al concetto di Sé: una visione di quelle abilità caratteristiche e qualità personali che sono presenti e assenti.
Il Sé ideale è l’immagine della persona che ci piacerebbe essere: non in modo frivolo (vorrei essere miliardario; vorrei essere una star del cinema), bensì piuttosto nel desiderio convinto di possedere determinate qualità. Per esempio un ragazzo che dà valore al successo scolastico ed è un bravo studente sarà soddisfatto di se stesso. Per contro un ragazzo il cui Sé ideale consiste in una grande popolarità tra i compagni, ma che nella realtà ha pochissimi amici, soffrirà di bassa autostima.

In altre parole possiamo pensare all’autostima in questi termini: “Autostima = Risultati reali/ Aspettative ideali”.

È la discrepanza tra Sé percepito e Sé ideale che crea problemi di autostima.

Una buona autostima viene considerata una visione sana ed equivale ad avere realisticamente carenze e difetti, ma non essere ipercritici nel considerarli. Una persona con un’autostima positiva si valuta in modo positivo e si sente bene in virtù dei suoi punti di forza, quali che siano. Se un individuo è in gran parte soddisfatto di se stesso, questo non implica che egli non desideri in alcun modo essere differente; al contrario, una persona che ha fiducia in se stessa spesso lavora sodo per migliorare le sue aree di debolezza, e tuttavia si perdona se talvolta manca il bersaglio e non riesce in un intento.

Ci sono persone con bassa autostima che di frequente esibiscono un atteggiamento artificioso di fiducia in se stesse agli occhi del mondo, nel tentativo di provare agli altri e a se stessi che sono persone all’altezza. Altre persone si ritirano invece in se stesse, timorose del contatto con gli altri poiché sono convinte che prima o poi verrebbero rifiutate. Una persona con bassa autostima è essenzialmente convinta che ci sia poco in lei di cui andare fieri.
Il concetto di Sé, e di conseguenza l’autostima, sono articolati in varie componenti correlate agli aspetti della vita che sono importanti per noi.

In un prossimo articolo approfondiremo le principali dimensioni dell’autostima.

mercoledì 3 settembre 2008

Cosa si può fare se si soffre di un Disturbo Ossessivo Compulsivo (3)

Di seguito ho sintetizzato alcune miei risposte a domande pervenutemi al blog inerenti il disturbo ossessivo compulsivo.

"Il problema iniziale con i pazienti che sofforno di disturbo ossessivo-compulsivo riguarda il fatto che sono convinti delle proprie valutazioni circa il significato dei pensieri intrusivi/ossessivi.

Il primo passo, perciò, è quello di sviluppare una maggior consapevolezza del ruolo delle loro convinzioni/valutazioni che stanno alla base della loro sofferenza.

Generalmente queste convinzioni rientrano nelle categorie della fusione pensiero/evento o pensiero/azione, in cui i confini tra pensiero ed eventi/azioni diventano labili e confusi.
Per esempio potrebbero pensare che il fatto di avere un certo pensiero possa far accadere un evento o il fatto di avere un certo pensiero significhi che probabilmente (o sicuramente) è già accaduto ("Se penso che posso far del male al bambino, allora probabilmente lo farò"). Questa convinzione porta al comportamento di evitamento di qualsiasi contatto con il bambino."

Cosa si può fare se si soffre di un Disturbo Ossessivo Compulsivo (2)

Di seguito ho sintetizzato alcune miei risposte a domande pervenutemi al blog inerenti il distrubo ossessivo compulsivo.

"La tecnica di Esposizione con Prevenzione della Risposta (ERP) è molto versatile e può essere applicata in modo flessibile.
Rimane il fatto che, pur essendo la tecnica terapeutica più efficace per il DOC può essere molto difficile attuarla per il paziente, soprattutto se perdurano le convinzioni riguardo la necessità di agire le complusioni.
In questi casi un intervento volto a milgiorare la motivazione all'uso della tecnica risulta indispensabile.
Nei casi in cui ci sia la presenza di attacchi di panico, un intervento mirato alla loro gestione può essere utile. La paura dei sintomi d'ansia e della paura in generale è l'aspetto principale del panico, a ciò si può sommare l'ansia derivante dalle ossesioni e le convinzioni negative che la persona ha nei confronti della propria ansia (p.e. "non riesco a tollerarla!") e delle conseguenza negative dell'ansia (p.e. "se continua a star male, impazzisco, muoio o perdo il controllo!")."

Cosa si può fare se si soffre di un Disturbo Ossessivo Compulsivo (1)

Di seguito ho sintetizzato alcune miei risposte a domande pervenutemi al blog inerenti il disturbo ossessivo compulsivo.

"Nella maggioranza dei casi è opportuno che chi è coinvolto nelle dinamiche familiari più strette con la persona che soffre (di Disturbo Ossessivo-Compulsivo, DOC) possa seguire un percorso (anche breve) non necessariamente di terapia personale, ma "solamente" di educazione al disturbo in oggetto, per capire come funziona, come gestirlo e come aiutare la persona che ne soffre e perchè e manifestare il proprio disagio e imparare a gestirlo al meglio.

Questo tipo di disturbo non è di facile comprensione, soprattutto perchè ad occhi non esperti le sue manifestazioni possono sembrare strane se non addirittura bizzarre e chi ne soffre può vergognarsi dei propri pensieri e di ciò che fa.
Questo non aiuta ad affrontare corettamente e con forza il problema, perchè c'è il rischio di manifestare una depressione secondaria al principale problema d'ansia.

Il DOC è un disturbo subdolo, che richiede molto impegno, ma le tecniche terpaeutiche per contrastarlo e superalo sono piuttosto efficaci, è indispensabile che si intraprenda la terapia più opportuna per questo tipo di disturbo.

La difficoltà a prendere farmaci può rallentare i progressi, ma questo non vuol dire che da sola la terapia non può dare quelche sollievo.

E'importante capire che i penseri ossessivi, in realtà, sono piuttosto comuni e normali, ciò che li rende ossessivi è il non accettare di averli e il valutarli in uncerto modo.
"Normalizzare" questo aspetto può essere un primo passo terapeutico. Certo molte persone non capiscono cosa succede, ma ogni attività ossessiva ha una motivazione.
Capire la motivazione è capire il particolare modo di giudicazre e valutazre i pensier ossessivi e le condotte compulsive della persona.

Inoltre, le compulsioni agiscono da fattori di mantenimento delle ossessioni e dell'ansia ad esse associate, più evito e controllo.

Il modo milgiore per uscirne è quello di evitare di evitare e di fare compulsioni e di lasciare che l'ansia vada via da sola, senza a gire una complusione. questa procedura terapeutica si chiama esposizione e prevenizione della risposta, sembra semplice e banale, ma è molto delicata ed è opportuno che solo terapeuti cognitivi e comportamentali esperti addestrati aiutino la persona ad affrontare questi passi. inoltre, oltre a rompere il condizionamento tra ossessione-ansia-compulsione-ossessione è fondamentale "ristrutturare" tutte quelle convinzione personali resonsabili della particolare valutaione di quei pensieri che la persona identifica come intrusivi e che non accttati e, soppressi ed evitati divengono assillanti."

mercoledì 16 luglio 2008

Le teorie naif: in che cosa consiste una psicoterapia (terza e ultima parte)

In articoli precedenti ho spiegato come ogni persona ha delle idee sia sulle cause della sofferenza (propria e altrui), sia su come si potrebbe agire per risolverla. Queste opinioni, il più delle volte, si basano però su una psicologia ingenua o teorie naif, più o meno distanti dal modello professionale dello psicoterapeuta.


Tra le teorie naif più comuni quella dell’incapacità riguarda l’idea secondo cui la propria sofferenza è causata da fattori interni alla persona come la mancanza di abilità, la mancanza di impegno o dalla conseguenza dei propri errori. Chi crede ciò pensa di stare male perché non riesce o non è stato in grado di evitare un certo danno (ad es. essere lasciato dal partner, sbagliare un esame, ecc..) o di ottenere un bene (ad es. essere amato, lodato, ecc..) e che potrà stare meglio solo se otterrà quello che desidera. Il motivo è quindi da rintracciare nella propria scarsa motivazione, ignoranza, insufficiente abilità, debolezza di carattere, ecc..

Invece, secondo la teoria del malfunzionamento biochimico o del sistema nervoso la sofferenza è causata dal funzionamento sbagliato del cervello o da una forza irrazionale come l’inconscio o l’emozioni indipendenti dalla propria razionalità che fanno agire l’individuo in modo non voluto. Chi pensa questo immagina che l’unico modo per stare bene sia vincere la battaglia contro i propri impulsi ed istinti.

Un’altra teoria ingenua attribuisce la sofferenza a cause esterne impersonali, ossia alla sfortuna, alla mancanza di soldi, agli astri, a forze o energie negative al di fuori del proprio controllo. Chi pensa questo vede se stesso essenzialmente alla mercé di cause esterne e quindi si percepisce come una vittima. Crede, inoltre, di poter stare meglio solo se l’ambiente in cui si trova sarà disponibile e benevolo nei propri confronti. Così non fosse, continuerà a stare male.

La teoria relazionale fa risalire la sofferenza al tipo di reazioni che una persona intrattiene con chi la circonda. Conflitti interpersonali, mancanza di affetto, esperienze traumatiche determinerebbero sofferenza indipendentemente dal modo in cui una persona valuta questi eventi. Va da sé che si può star bene solo se si riceve tutto ciò che è mancato nel passato o tutto ciò che si desidera in una relazione o portando a galla quelle esperienze traumatiche probabilmente inconsce che in qualche modo influenzano il proprio presente.

Altre teoria, come quella dello scienziato, dell’artista o dell’esploratore, invece, sono molto più vicine alle teorie psicologiche sulla sofferenza. Queste ultime sostanzialmente vedono l’individuo come un soggetto attivo che costruisce ipotesi o la realtà in forme diverse per raggiungere scopi e migliorare la propria conoscenza di sé e del mondo, procedendo per congetture e verifiche, per cui individuano nel soggettivo modo di vedere le cose la causa della sofferenza. La guarigione deriverebbe dalla comprensione di come si vedono le cose, dall’imparare a valutare in modo diverso se stessi e il mondo e dall’emettere nuovi tipi di comportamenti.

Qual è la vostra personale teoria sulla sofferenza e la guarigione?

Il trattamento dell'obesità

L’obesità è un disturbo complesso generato dall’interazione tra fattori genetici e ambientali. Non esiste una teoria univoca e chiara che spieghi come e perché si sviluppa questo problema, ma aspetti sociali, comportamentali, culturali, fisiologici, metabolici e fattori genetici concorrono globalmente a determinarla. Oggi l’attenzione rivolta a questo problema da parte degli specialisti e la ricerca di metodi di trattamento efficaci è in costante aumento.

Negli ultimi anni, infatti, le ricerche evidenziano un aumento degli individui in sovrappeso del 25%. Inoltre, si considera che circa 4 milioni di persone siano obesi. Nonostante il problema tocchi prevalentemente le persone intorno ai cinquant'anni, le ricerche svolte in tutto il mondo sono sempre più concordi nel sottolineare l’alta incidenza nella popolazione infantile di bambini in sovrappeso. In Italia, dati Istat indicano che il 35,9% dei bambini di dieci anni e il 30% delle bambine sono in sovrappeso. In generale, circa 14 milioni di italiani sono in sovrappeso. Secondo la comunità scientifica l’obesità è definita da un indice di massa corporea BMI > = 30 chili al metro quadrato, mentre il sovrappeso è tra 25 e 29,9. Il BMI si calcola dividendo il peso in chili per l’altezza (espressa in metri al quadrato: kg/(m)2.

E’ importante trattare l’obesità mediante un approccio multidimensionale: la combinazione di una dieta modificata, l’aumento dell’attività fisica controllata e la terapia comportamentale è risultata efficace. (National Institute of Health e National Heart, Lung and Blood Institute North American Association for the Study of Obesity; WHO). Questi tre interventi paralleli e integrati sono stati delineati attraverso precise linee guida; in generale essi prevedono:

  • Terapia dietetica. Il consumo di calorie dovrebbe essere ridotto di 500/1000 calorie al giorno a partire dal livello corrente quotidianamente assunto. La maggior parte delle persone obese e sovrappeso dovrebbe adottare aggiustamenti alimentari a lungo termine per ridurre l’introito calorico. La terapia dietetica include specifiche e scientifiche istruzioni per modificare la dieta corrente della persona per raggiungere l’obiettivo.
  • Attività fisica. L’attività fisica ha benefici sia diretti sia indiretti. Aumentare l’attività fisica è importante per ottimizzare la perdita di peso, perché aumenta il dispendio energetico e gioca un ruolo integrante nel mantenimento del peso. Inoltre riduce il rischio di malattie cardiache e può aiutare a ridurre il grasso corporeo. Tutti gli adulti dovrebbero pianificare obiettivi a lungo termine che permettano loro di accumulare almeno 30 o più minuti di attività fisica ad intensità moderata per la maggior parte dei giorni della settimana.
  • Terapia cognitivo-comportamentale. L’aggiunta della terapia cognitivo-comportamentale aumenta la motivazione al cambiamento e aiuta a seguire costantemente il programma terapeutico (attività fisica, dieta modificata). Questo tipo di terapia è un complemento utile per l’analisi e la modificazione dell’alimentazione e dell’attività fisica.

Il rilassamento muscolare

Abbiamo avuto un evento spiacevole e continuiamo a pensarci provando un profondo disagio. Stiamo guidando la macchina e l’auto di fronte a noi procede lentamente, incominciamo ad avvertire rabbia, tensione e ci agitiamo sempre di più. Una persona sta facendo un’affermazione che noi non condividiamo e ci adiriamo immediatamente.

Questi sono soltanto alcuni esempi di situazioni che possono creare una risposta emozionale intensa e provocare un comportamento esagerato, sproporzionato, evidenziando una carenza di autocontrollo. Se questo stato di tensione si mantiene per lungo tempo il nostro organismo subirà effetti debilitanti che potrebbero causare, a lungo andare, dei disturbi somatici, tra i quali: mal di testa costante, disfunzioni cardiocircolatorie, colite ed ulcere.

Uno stato ansioso è una reazione fisiologica in risposta alla percezione di un pericolo a cui si reagisce con un comportamento di attacco o di fuga. Ma l’ansia non è sempre un’emozione negativa. Ad esempio, l’atleta prima di una gara può essere sotto lieve stress. Questo stato di tensione fisiologico, aumentando la circolazione, la respirazione e il battito cardiaco può migliorare la prestazione sportiva. Al termine della gara il battito cardiaco e la tensione dovrebbero ritornare ad un livello normale. Quando però questo stato di alterazione è mantenuto nel tempo, la persona è sotto stress cronico.

I metodi di rilassamento consistono in procedimenti terapeutici aventi la finalità di ottenere nell’individuo una diminuzione della tensione muscolare e psichica attraverso specifici esercizi. Tra le varie metodologie esistenti, il rilassamento muscolare progressivo deriva dagli studi sulla fisiologia del sistema neuromuscolare compiuti da Edmound Jacobson e si basa sull’alternanza di contrazioni e decontrazioni della muscolatura volontaria eseguita in progressione, ossia per tappe, delle varie zone corporee (ad es. dei piedi, delle gambe, poi delle braccia e così via).

Lo scopo della tecnica è quello di diminuire l’eccitabilità della corteccia cerebrale per mezzo del controllo volontario del tono muscolare. Se una parte del corpo è rilassata non trasmette stimoli al cervello, di conseguenza, la zona corporea rilassata non riceve impulsi di ritorno dal sistema nervoso centrale. Attraverso la pratica continua degli esercizi di contrazione e decontrazione, al rilassamento muscolare si associa la quiete mentale resa possibile dall’avvenuta inibizione delle aree corticali corrispondenti ai muscoli rilassati.

Il rilassamento può essere generale, quando coinvolge tutto il corpo o un rilassamento parziale, quando esso interessa un gruppo muscolare. In questo modo è possibile realizzare contemporaneamente una tensione minima nei muscoli impegnati nell’esercizio ed un rilassamento negli altri, imparando a controllare gli eccessi di tensione nell’attività quotidiana.

Questa tecnica si è consolidata nel tempo acquisendo consensi sempre più vasti, per il suo largo impiego nelle psicoterapie cognitivo-comportamentali per il trattamento dell’ansia, del panico e delle fobie ed in tutte quelle aree in cui si richiede un autocontrollo; per l’economicità e la facile applicazione in tutte le situazioni della vita quotidiana; per la sua applicazione nell’ambito dei disturbi psicosomatici quali l’ulcera, la colite, le disfunzioni cardio-circolatorie, le sindromi asmatiche e le disfunzioni ormonali.

giovedì 19 giugno 2008

Cos'è il Disturbo Ossessivo Compulsivo















Il
Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è caratterizzato da ossessioni o compulsioni ricorrenti, sufficientemente gravi da far impiegare tempo o da causare disagio marcato o menomazione significativa.

Le ossessioni sono idee, pensieri, impulsi o immagini persistenti, vissute come intrusive e inappropriate, e causano ansia o disagio marcati; possono essere riconosciute dal soggetto stesso come eccessive e irragionevoli. L'individuo con ossessioni di solito cerca di ignorare o sopprimere tali pensieri o impulsi, o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni (cioè, una compulsione). Comunque, l’individuo è capace di riconoscere che le ossessioni sono il prodotto della sua mente e non vengono imposte dall’esterno (come nell’inserzione del pensiero).

Le ossessioni più frequenti sono pensieri ripetitivi di contaminazione (per es., essere contaminati quando si stringe la mano a qualcuno), dubbi ripetitivi (per es., chiedersi se si è lasciata la porta aperta o se ci si è comportati in modo tale da causare delle lesioni a qualcuno guidando), la necessità di avere le cose in un certo ordine (per es., disagio intenso quando gli oggetti sono in disordine o asimmetrici), impulsi aggressivi o terrifici (per es., aggredire un figlio o gridare oscenità in chiesa) e fantasie sessuali (per es., ricorrenti immagini pornografiche). I pensieri, impulsi o immagini non sono semplicemente preoccupazioni eccessive riguardanti problemi reali della vita (per es., preoccupazioni per difficoltà attuali nella vita, tipo problemi finanziari, lavorativi o scolastici) ed è improbabile che siano correlati a reali problemi della vita.

L’individuo con ossessioni di solito cerca di ignorare o sopprimere tali pensieri o impulsi o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni (cioè, una compulsione). Ad esempio, un individuo afflitto dal dubbio di non aver spento una stufa cerca di neutralizzarlo controllando ripetutamente per assicurarsi di averla chiusa.

Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi (per es. lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali (per es., pregare, contare, ripetere mentalmente delle parole) il cui obiettivo è quello di prevenire o ridurre l'ansia o il disagio che accompagna un'ossessione o per prevenire qualche evento o situazione temuti e non quello di fornire piacere o gratificazione. Nella maggior parte dei casi, la persona si sente spinta a mettere in atto la compulsione per ridurre il disagio che accompagna un’ossessione o per prevenire qualche evento o situazione temuti.
Ad esempio, gli individui con ossessioni di contaminazione possono ridurre il proprio disagio mentale lavandosi le mani finché la pelle non diventa ruvida; gli individui afflitti dall’ossessione di avere lasciato una porta aperta possono essere spinti a controllare la porta a intervalli di pochi minuti; gli individui afflitti da pensieri blasfemi involontari possono trovare sollievo contando 10 volte indietro e 100 volte in avanti per ogni pensiero. In alcuni casi gli individui mettono in atto azioni rigide o stereotipate secondo regole elaborate in modo idiosincrasico senza riuscire a spiegare perché lo stanno facendo. Per definizione le compulsioni sono chiaramente eccessive e non connesse in un modo realistico con ciò che sono designate a neutralizzare o prevenire. Le compulsioni più comuni comprendono lavarsi e pulire, contare, controllare, richiedere o pretendere rassicurazioni, ripetere azioni e mettere in ordine.

Per definizione gli adulti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo hanno in qualche momento riconosciuto che le ossessioni o le compulsioni sono eccessive o irragionevoli. Questi requisiti non si applicano ai bambini, poiché può mancare una consapevolezza cognitiva sufficiente per formulare questo giudizio. Comunque, anche negli adulti vi è un’ampia variabilità di insight sulla ragionevolezza delle proprie ossessioni o compulsioni. Alcuni individui sono incerti della ragionevolezza delle loro ossessioni o compulsioni, e l’insight di ogni individuo può variare in diversi periodi o situazioni. Ad esempio, la persona può riconoscere che una compulsione di contaminazione sia irragionevole quando se ne discute in una situazione “sicura” (per es., nello studio del terapeuta), ma non quando costretto a maneggiare dei soldi. In tali momenti, quando l’individuo riconosce che le ossessioni e le compulsioni sono irragionevoli, può desiderare o tentare di resistervi. Quando tenta di resistere a una compulsione, l’individuo può avere la sensazione di aumento dell’ansia o della tensione, che possono essere alleviate cedendo alla compulsione. Nel corso del disturbo, dopo insuccessi ripetuti nel cercare di resistere a ossessioni o compulsioni, l’individuo può cedere, non provare più il desiderio di resistervi e incorporare le compulsioni nelle proprie abitudini quotidiane.

Le 4 sfide del Disturbo Ossessivo Compulsivo

Prima sfida
Esperimento: provate a non pensare alle parole “cane nero” per tre minuti.

Ci siete riusciti?


Probabilmente no, perché i tentativi di opporsi all’attività mentale orientano l’attenzione agli stessi pensieri che cerchiamo di evitare. Nel momento stesso in cui pensate di non pensarci, ci pensate: è il paradosso dell’intenzionalità.

E’ uno dei circoli viziosi che mantengono il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC): quando arriva un’ossessione, la prima cosa che si fa è resisterle, contrastarla, scacciarla dalla propria mente. Questo non fa che intensificarla. Dal momento che resistere non funziona provate qualcosa di nuovo: accettate l’arrivo di un pensiero ossessivo. E’ anche la prima sfida da affrontare per chi vuole liberarsi del DOC.
Pensare “accetto di avere questa ossessione in questo momento” può risultare strano, ma cosa succede quando pensate: “Non voglio avere questi pensieri, sono terribili!”? L’ansia e la paura aumentano. Ogni tentativo di controllo, soppressione ed evitamento di questi pensieri è controproducente.


Seconda sfida

Nella seconda sfida bisogna essere determinati a gestire il disturbo. Affrontare il DOC vuol dire venire a contatto con le proprie paure: è importante essere consapevoli che si soffrirà a breve termine per ottenere dei vantaggi a lungo termine.
Ci vogliono coraggio e determinazione perché si dovrà rischiare adottando comportamenti opposti alle azioni ritualizzate che generalmente mette in atto chi ha il DOC. Il dubbio di aver fatto la cosa giusta, la paura di non riuscire faranno breccia nella mente, ma non si dovrà mollare. Quando ci si ritroverà in queste situazioni, non perdere di vista i vantaggi di una vita senza ossessioni e compulsioni diventa un imperativo se si vuole superare le difficoltà, perché l'impegno è arduo e il desiderio di cedere è costantemente presente. Vantaggi ben chiari ci daranno la spinta motivazionale per accettare la sfida, in quanto ci ripagheranno di tutto lo sforzo compiuto.


Terza sfida

Il problema più grave che si trovano ad affrontare le persone che soffrono di disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è l’ansia che provano nei confronti di idee e cose per le quali si rendono conto che non vale la pena angosciarsi, perché eccessive o assurde.
Alla domanda: “Che cosa la disturba?”, di solito le persone con DOC rispondono: “Non riesco a smettere di preoccuparmi di non aver controllato bene o che le mie mani siano sporche…” e così via. Il punto fondamentale è che, qualunque cosa facciano per alleviare l’ansia, la spinta a controllare o a lavarsi non scomparirà.
Questo perché il disagio che le ossessioni provocano è così intenso da confondere le idee e da portare le persone a credere che il contenuto dei pensieri ossessivi (cioè il motivo per il quale si preoccupano, ad es. avere qualcosa di sporco o l’idea assillante di non avere chiuso il gas) sia di reale importanza. Comprendere che il contenuto dell’ossessione è irrilevante, di nessuna utilità, senza un vero significato è la terza sfida che la lotta al DOC propone.
Il DOC è un disturbo d’ansia non un disturbo del pensiero; ciò che è realmente importante gestire è l’ansia non il pensiero ossessivo.

Una persona con il DOC potrebbe pensare: “Oh mio Dio, ho pensato di poter urlare in pubblico cose oscene! E’ un pensiero orribile! Perché ho avuto questo pensiero? Non posso fidarmi di me stesso. Potrei farlo accidentalmente!”
Fate caso al significato che questa persona attribuisce al contenuto dell’ossessione: sono la paura e il dubbio di poter perdere il controllo delle proprie azioni ad innescare la ricerca ossessiva di un controllo assoluto; è arrivato un pensiero e si è spaventata, l’ha interpretato come pericoloso e ha tentato di scacciarlo.

In realtà il contenuto del pensiero in sé ha poco significato. L’80% della popolazione può avere questi tipi di pensieri, ma ciò che differenzia le persone con DOC è il fatto che si spaventano e molto: il pensiero diventa significativo perché è accompagnato da un’intensa ansia.

Si può parlare, quindi, di “ossessioni non patologiche” e “ossessioni patologiche” all’interno di un continuum in cui le prime sono normali processi di pensiero comuni alla maggior parte della popolazione e le seconde sembrano differenziarsi per quantità e frequenza: creano più intense reazioni emozionali, s’impongo più tenacemente contro la volontà e persistono per tempi più lunghi.

In generale è comunemente accettato che le “ossessioni patologiche” permangono quando il loro contenuto è valutato pericoloso o di estrema importanza per la persona; di per sé, infatti sono un fenomeno normale e decadono, ciò che le differenzia dalle “intrusioni non patologiche” è l’esistenza di particolari meccanismi di pensiero, di elaborazione dell'informazione e di credenze/schemi disfunzionali che caratterizzano il disturbo e lo mantengono.
Poiché meccanismi e credenze intervengono nell’interpretazione e valutazione dei pensieri intrusivi, devono essere modificate per favorire il processo terapeutico. Questo è l'obiettivo della psicoterapia cognitiva, che centra la sua attenzione sulla modificazione di tali processi di pensiero automatici e disfunzionali.

In particolare è stato identificato un:
- eccessivo senso di responsabilità: i pazienti con DOC, in particolar modo quelli che temono le conseguenze dannose sugli altri, piuttosto che su sé stessi, delle proprie trascuratezze, ritengono spesso che l'avere una qualunque influenza sull'esito di un determinato evento negativo equivalga all'esserne totalmente responsabile;
- eccessiva importanza attribuita ai pensieri: per chi soffre di DOC, avere un pensiero in testa significa di per sé che esso è importante;

- sovrastima della possibilità di controllare i propri pensieri: i pazienti DOC, non tollerando la presenza di pensieri negativi per i motivi sopra illustrati, fanno di tutto per contrastarli e liberarsi la mente, senza considerare che noi non possiamo decidere di non pensare a qualcosa e che abbiamo un controllo soltanto parziale sul nostro flusso di pensieri;
- sovrastima della pericolosità dell'ansia: l'ansia è un'emozione normale e non pericolosa; i sintomi fisici dell'ansia possono essere molto sgradevoli, ma non portano mai alla perdita di controllo del proprio comportamento e, prima o poi, tendono a scomparire spontaneamente anche se la persona non fa niente per tranquillizzarsi. I pazienti DOC, invece, tendono a confondere lo stato confusionale che l'ansia può indurre come segno di un imminente perdita di controllo e a ritenere che il malessere fisiologico ad essa correlato aumenti all'infinito o rimanga stabile nel tempo, a tal punto da essere intollerabile o dannoso per l'organismo.


Quarta sfida

Quando percepiamo un pericolo il cervello è più sensibile e facilmente associa la sensazione di pericolo (l’ansia) al pensiero. Ciò che conta è la sensazione, ecco perché alcune persone possono controllare di avere spento il gas per ore, ma avere ancora la sensazione sgradevole che sia ancora aperto. E questo ci porta alla quarta e ultima sfida: è importante ciò che fate.
Il DOC, infatti, vuole farci credere che solo adottando un comportamento ritualizzato (una compulsione, come continuare a controllare il gas) si possa alleviare l’ansia.
In realtà facendo una compulsione non si sfiderà mai quest’idea e non si scoprirà quanto sia errata. E’ come l’uomo che ogni mattina, alla stessa ora, si piazza sull’uscio di casa; incuriosito il vicino gli chiede il motivo di quel comportamento. Perché se non lo facessi i leoni entrerebbero, risponde l’uomo; ma non ci sono leoni in città, osserva il vicino; al che l’uomo risponde: “Hai visto come funziona?!”.
E’ fondamentale perciò focalizzare l’attenzione su un altro comportamento che ci coinvolga e ci distragga dall’ossessione e non commettere l’errore di attendere passivamente che pensieri ossessivi e impulsi assillanti scompaiano da soli.

mercoledì 28 maggio 2008

L'ABC delle emozioni

Supponiamo di stare aspettando una telefonata da un nostro caro amico. Siamo in attesa di sapere a che ora passerà a prenderci stasera per andare ad una festa. Ha detto che ci chiamerà fra un paio d’ore. Il tempo passa e l’amico non si fa sentire. Le ore trascorrono e il telefono non squilla…

Come potremmo reagire alla situazione?
Potremmo essere preoccupati, arrabbiati, tristi o anche sollevati.

Come è possibile provare emozioni così diverse per una medesima situazione?
Cerchiamo di esaminare bene tutta la sequenza. Il fatto che l’amico non ci ha chiamato all’ora prefissata è l’evento iniziale, scatenate o attivante la sequenza. Chiamiamo questo evento il punto A della sequenza.
La rabbia è uno dei modi in cui ci siamo sentiti in conseguenza al verificarsi di A, cioè un’emozione. Chiamiamo l’emozione il punto C della sequenza.

Molte persone sono convinte che sia l’evento A a scatenare l’emozione C, ossia che A causi C.

Questo è un modo per spiegare le proprie emozioni: “mi sono arrabbiato, perché non mi ha chiamato!” Ma è un modo impreciso, perchè non chiarisce come sia possibile provare diverse emozioni a causa di situazioni uguali o come persone diverse possano provare emozioni diverse nella stessa situazione. Potremmo infatti dire, allo stesso modo: “Sono triste, perché non mi ha chiamato.”

Dimentichiamo infatti un elemento importante della sequenza: quando ci accade qualcosa, noi pensiamo a quanto accade in un certo modo.

Ad esempio, la telefonata non arriva e ci rattristiamo, perché potremmo pensare: “Si è dimenticato di chiamarmi, non sono un grande amico per lui”.
Oppure ci preoccupiamo: “Come mai non telefona, gli sarà successo qualcosa?”.
O ci arrabbiamo, se pensassimo qualcosa tipo: “Non è così che si fa, è un maleducato!”. Potremmo perfino essere contenti se alla mancata telefonata (l’evento A) pensassimo: “Meno male che non ha telefonato. Non avevo proprio voglia di andare alla festa…”.

Perciò chiamiamo i pensieri il punto B della sequenza, l’elemento che sta in mezzo, tra il punto A, l’evento scatenate e il punto C, le emozioni.

La sequenza A-B-C così sintetizzata è un modo più preciso di spiegare le emozioni che proviamo in un dato momento. Il modello ABC, alla base della psicologia cognitiva, sostiene infatti che le nostre emozioni derivano non tanto da ciò che ci accade, ma dal modo in cui interpretiamo e valutiamo ciò che ci accade.

Ecco perché la spiegazione comune per cui A causerebbe C è inesatta. Per capire le proprie reazioni emotive è necessario andare a vedere cosa è successo al punto B, cioè iniziare a chiedersi quale insieme di pensieri su ciò che è successo è presente nella propria mente.

Questo è il primo passo per aumentare la consapevolezza delle proprie reazioni emotive e comportamentali e per comprendere le specifiche relazioni esistenti tra pensieri e sentimenti che stanno alla base dei problemi psicologici.

martedì 27 maggio 2008

Il Biofeedback

Attraverso l’uso di una apparecchiatura elettronica denominata biofeedback è possibile imparare a rilassarsi da soli in modo efficace e a regolare le funzioni biologiche del proprio organismo che di norma non sono sotto il controllo volontario, come ad esempio la frequenza cardiaca, la temperatura, la tensione muscolare, la resistenza elettrica della pelle, il ritmo alfa cerebrale (indice di autocontrollo e benessere, rilassamento e di una mente non impegnata in alcun compito, sgombra di pensieri, ma sveglia, attenta e pronta a recepire stimoli sensoriali).

Per esempio, lo strumento rileva il battito cardiaco, lo elabora e lo trasforma in un segnale visivo o acustico, ricavando due parametri: la frequenza cardiaca e lo stato di vasodilatazione (o di vasocostrizione) periferica in base all’ampiezza del segnale registrato. Se l’ampiezza è bassa, significa che c’è vasocostrizione (la temperatura cutanea delle dita è bassa e vasocostrizioni temporanee possono essere causate da fenomeni emozionali transitori provati dal soggetto), altrimenti se l’ampiezza del segnale è buona, c’è vasodilatazione. In questo modo la persona può percepire, attraverso immagini e/o i suoni prodotti dall’apparecchiatura, l’intensità del proprio stress, sperimentando la propria tensione emotiva in tempo reale e, cercando di evitare che la macchina suoni, impara ad esercitarsi per riportare alla normalità le funzioni del proprio corpo.
Attraverso un monitoraggio automatico e costante dei segnali oggettivi del proprio stato di stress fisico ed emotivo, la persona è in grado di apprendere rapidamente a raggiungere uno stato di rilassamento.
Il biofeedback può essere usato per il trattamento di diverse condizioni. Le aree in cui è stato maggiormente applicato sono quelle relative alla gestione del dolore, dello stress e degli stati ansiosi; mentre il neurofeedback (specifico per la rilevazione delle onde cerebrali) viene comunemente applicato con efficacia per i disturbi da deficit dell’attenzione e iperattività, i traumi cranici e le dipendenze.


I disturbi d’ansia e psicosomatici sono tra le patologie più studiate e trattate con biofeedback. La risposta ansiosa è un modo col quale il sistema nervoso può reagire se stressato.

Quando questa risposta è continua nel tempo diventa problematica, perché si è sottoposti ad uno stress cronico e abituale. L’utilizzo sistematico e controllato del biofeedback è uno strumento che, utilizzato all’interno di una mirata terapia permette in breve tempo di apprendere a controllare e gestire l’ansia, mentre le tecniche di neurofeedback possono aiutare a stabilizzare il sistema nervoso centrale, in modo tale da non produrre intense risposte d’ansia agli stressor quotidiani.

giovedì 22 maggio 2008

Cosa impedisce di essere felici: le trappole emotive

  • Continuate ad innamorarvi di persone che vi rifiutano?
  • Rimanete coinvolti in relazioni con persone fredde nei vostri confronti?
  • Pensate che ci sia qualcosa di sbagliato in voi?
  • Vi sentite ansiosi e vulnerabili?
  • Provate troppo spesso un senso di inadeguatezza e di inferiorità?
  • Siete diffidenti nei confronti degli altri?
  • Anteponete i bisogni degli altri ai vostri al punto tale che le vostre esigenze non vengono mai soddisfatte?
  • Pensate che nessuno vi capisca?
  • Non vi sentite mai appagati o non realizzati o immeritevoli nonostante l’approvazione e il consenso degli altri?
  • Pensate di non valere nulla?
Forse siete imprigionati in una “trappola emotiva”… siete finiti all’interno di un circolo vizioso che vi impedisce di essere felici.Vivere in una trappola” è come se qualcosa di vitale sfuggisse, come avere la sensazione di non essere pienamente padroni della propria vita, bloccati all’interno di ripetitivi modi di pensare, di sentire, di comportarsi e di relazionarsi con se stessi e gli altri, tali da compromettere importanti aree de funzionamento affettivo, lavorativo e sociale.
Modalità che si sono formate nel tempo in momenti cruciali dello sviluppo di una persona, presumibilmente nella prima infanzia o talora nell’adolescenza dall’incontro tra il proprio temperamento genetico e le proprie esperienze interpersonali, prime fra tutte quelle con i propri genitori.

Può accadere infatti che molte persone, nel corso della loro vita potrebbero avere avuto esperienze di troppa o scarsa protezione, potrebbero essere state abusate emozionalmente e/o fisicamente, potrebbero essere state denigrate, abbandonate, deprivate, potrebbero aver percepito e vissuto un’intensa distanza tra loro e le persone che le hanno accudite, in modo tale che la soddisfazione dei propri principali ed universali bisogni riguardanti la sicurezza di base, i rapporti interpersonali, l’autonomia, l’autostima, l’espressione di sé e la presenza di limiti realistici non è stata sufficiente o è mancata del tutto.

Queste esperienze emotivamente negative possono lasciare un’impronta molto profonda nelle persone, tale da creare l’aspettativa che ciò che di negativo è accaduto nel passato è ciò che accade sicuramente nel presente ed è quello che ci si deve attendere nel futuro, in un’estenuante ripetizione di schemi sempre uguali, dolorosi e insoddisfacenti.

Ecco allora che ci si può “arrendere alle trappole” e perdere la speranza di cambiare i propri modi di pensare, sentire, agire e relazionarsi, rimanendo nella trappola.

Oppure si può cercare di evitare ogni situazione che possa far scattare la trappola, ossia ogni situazione che possa farci sentire in trappola.

Oppure si può tentare di vivere “all’opposto della trappola”, come se andasse tutto bene, ma consapevolmente spaventati di poterci cadere da un momento all’altro.

Tutto questo senza avere l’idea che, per fortuna, c’è un modo di vivere “al di fuori” delle trappole. Numerosi possono essere gli esempi concreti di questi “modi di vivere infelici”, mi riserbo di approfondirli in articoli successivi, dopo aver descritto la natura e l’origine delle varie trappole emotive.

Il comportamento dei familiari nel caso di panico e agorafobia

Quando una persona soffre di attacchi di panico, questa condizione incide sull'intera famiglia.
I membri della famiglia possono andare incontro ad un sentimento di frustrazione in quanto i loro tentativi di aiutare la persona colpita dal disturbo non hanno successo, si trovano sovraccaricati di responsabilità e socialmente isolati. La famiglia dovrebbe incoraggiare il/la parente con attacchi di panico a cercare l'aiuto di un esperto qualificato nella terapia del disturbo.
Alcune strategie possono essere utili, come per esempio incoraggiare la persona affetta da panico ad avvicinarsi almeno un po' ogni tanto alle situazioni o ai posti temuti.

Nei casi di disturbi d'ansia. Cosa fare?

  • Non fate congetture su ciò di cui la persona ha bisogno, chiedeteglielo.
  • Siate prevedibili, non fate loro sorprese.
  • Lasciate che la persona abbia momenti di tranquillità per rimettersi.
  • Trovate aspetti positivi in ogni esperienza. Se la persona è in grado soltanto di affrontare alcune situazioni, come andare a teatro o ad una festa, consideratelo un successo non un fallimento.
  • Non permettete evitamenti. Quando la persona vuole evitare qualcosa, concordate di fare anche un solo passo alla volta verso la situazione o il luogo temuto.
  • Non sacrificate la vostra vita con il rischio di cominciare a provare rancore verso la persona con panico.
  • Non entrate in panico quando la persona ha un attacco.
  • Ricordate che è normale che voi stessi siate ansiosi; è normale essere un po' agitati o anche preoccupati per la persona.
  • Siate pazienti e comprensivi, ma non rassegnatevi a considerare la persona malata per sempre.
  • Dite loro "Lo puoi fare, non importa come ti senti. Sono fiero/a di te. Dimmi di cosa hai bisogno. Respira lentamente e con calma. Concentrati sul momento presente. Non è il posto che ti infastidisce, sono i tuoi pensieri. So che quello che provi è brutto, ma non è pericoloso. Sei davvero coraggioso/a".
NON DITE:

"Rilassati!", "Calmati!", "Non essere ansioso", "Vediamo un po' se ci riesci" (mettendo la persona nella posizione di dover superare un test), "Puoi combattere", "Cosa faremo dopo?", "Non essere ridicolo/a", "Devi restare qui", "Non essere vigliacco/a". (Tratto dal NIMH. National Institute of Mental Health)



Tale articolo è presente anche su Medicitalia.it

Le teorie naif: in che cosa consiste una psicoterapia (seconda parte)

Nell’articolo precedente ho spiegato come ogni persona ha delle idee sia sulle cause della sofferenza (propria e altrui), sia su come si potrebbe agire per risolverla. Queste opinioni, il più delle volte, si basano però su una psicologia ingenua o teorie naif, più o meno distanti dal modello professionale dello psicoterapeuta.

Rimandando ad un prossimo articolo una breve esemplificazione delle teorie naif più comuni, è opportuno avere prima un’idea precisa delle teorie che il terapeuta propone ai pazienti per aiutarli a guarire dalla propria sofferenza.

Il modello seguente si rifà alla teoria cognitiva e comportamentale, considerata a livello internazionale uno dei più efficaci modelli per la comprensione ed il trattamento dei disturbi psicopatologici, così come attestano recenti documenti diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Sostanzialmente tale modello postula che ogni persona è guidata dal perseguimento di scopi (bisogni, desideri, aspirazioni, ecc..).
Gli scopi sono sia innati, sia appresi.
Le emozioni svolgono una funzione di segnale, quelle positive informano il raggiungimento degli scopi, quelle negative il fallimento del realizzazione dello scopo o la minaccia di un fallimento.
Per raggiungere uno scopo, si mettono in atto delle strategie. Quali e come usarle è determinato dalle credenze (cognizioni), che funzionano un po’ come una mappa sia di se stessi e del territorio in cui ci si trova: sulla base del tipo di territorio che le proprie credenze (convinzioni, assunzioni, valutazioni, giudizi, ecc..) delineano e sulla conseguente constatazione di dove ognuno si colloca e vuole arrivare (scopo), si organizzano specifici percorsi (si attuano certe strategie) per giungere all’arrivo (ottenimento dello scopo). Le credenze sono sia innate, sia apprese dall’esperienza, in particolare dall’esperienza precoce (infanzia e adolescenza).

Inoltre, le emozioni e i comportamenti non sono determinati dagli eventi, ma dalle soggettive valutazioni che su di essi vengono fatte. In ogni istante avviene una valutazione degli eventi come positivi o negativi rispetto ai propri scopi, tramite un dialogo interno.

Le prime credenze apprese lottano per sopravvivere e tendono ad autoconfermarsi, cioè dirigono la percezione, la memoria e l’apprendimento di nuove esperienze agendo come un filtro che esclude tutte gli elementi e le prove che non le confermano. Questo aspetto è molto importante, perché la sofferenza dipende dal ripresentarsi continuo del fallimento di uno scopo, senza che si riesca a cambiare strategie per raggiungerlo o senza che si riesca a rinunciare a quello scopo.

Per la loro particolare natura autoconfermante le credenze vengono generalizzate a diversi contesti della vita. Quando sono state apprese avevano una funzione di adattamento dell’individuo al contesto particolare in cui viveva; accade spesso che in altri contesti le stesse credenze siano del tutto o in parte disfunzionali, causando sofferenza.

Il cambiamento in terapia, e nella vita, passa perciò attraverso un cambiamento delle credenze che permetta un cambiamento delle strategie per ottenere uno scopo o la rinuncia stessa dello scopo, quando irraggiungibile. Ciò viene attuato rivivendo criticamente il contesto passato in cui le credenze sono state apprese e mediante azioni specifiche nel presente atte a metterle alla prova per favorire la loro messa in discussione circa la loro utilità e verità.

La psicoterapia cognitiva e comportamentale aiuta ad incrementare la consapevolezza circa i propri scopi, le proprie strategie per raggiungerli, le proprie credenze e il dialogo interno che genera le emozioni e i comportamenti e a mettere in discussione le credenze che causano sofferenza, cercando credenze alternative più utili e funzionali.

giovedì 24 aprile 2008

Come la famiglia e gli amici possono aiutare le persone depresse


La cosa più importante che qualcuno possa fare per una persona depressa è aiutarla a trovare una diagnosi e un trattamento appropriati.

Questo può voler dire incoraggiare la persona a continuare il trattamento fino a che i sintomi iniziano a diminuire (diverse settimane) o cercare trattamenti alternativi se non ci sono miglioramenti evidenti.

A volte ciò può significare prendere un appuntamento o accompagnare la persona che soffre dal medico. Può voler anche dire, monitorizzare l'uso regolare dei farmaci prescritti dal medico alla persona depressa. Si dovrebbe incoraggiare la persona depressa a seguire i consigli del medico riguardo all’uso di alcolici durante l’assunzione di farmaci.

La seconda cosa più importante che si dovrebbe offrire alla persona che soffre di depressione è il supporto morale ed emotivo: essere comprensivi, pazienti, affettuosi e incoraggianti.

Impegnate la persona depressa in discussioni e ascoltate attentamente. Non sottovalutate (svilite) i sentimenti espressi, ma fate vedere la realtà e offrite speranza. Non ignorate i commenti su ipotesi di suicidio, riferirteli al terapeuta della persona depressa.

Invitate la persona depressa a fare una passeggiata, ad uscire, ad andare la cinema e a intraprendere altre attività. Siate gentili nell’insistere se il vostro invito viene rifiutato.
Incoraggiate la partecipazione alle attività che un tempo erano piacevoli, come gli hobby, lo sport, la religione e le attività culturali, ma non spingete la persona depressa ad fare troppo, troppo presto. La persona depressa ha bisogno di passatempi e compagnia, ma troppe richieste possono aumentare i sentimenti di fallimento e impotenza.

Non accusate la persona depressa di far finta di star male o di essere un fannullone e non aspettatevi che reagisca da sola, “la smetta di compiangersi” o si “liberi” dalla depressione con un po’ di buona volontà.

Generalmente, mediante il trattamento, la maggior parte delle persone migliora. Ricordatelo e continuate a rassicurare la persona depressa che, col tempo e l’aiuto, si sentirà meglio.
Sostanzialmente è necessario evitare di far leva sulla “forza di volontà” e sulla “colpevolizzazione”; la persona depressa a causa della malattia è già in preda ai sensi di colpa e privo di energia vitale.

E’ necessario, invece, stimolare la ricerca di un aiuto specialistico e continuare a sottolineare che la condizione depressiva è transitoria.