lunedì 20 settembre 2010

Mindfulness



Prestare attenzione intenzionalmente, momento per momento, senza giudizio (Jon Kabat-Zinn).

E' questo, tutto ciò che senrve sapere per praticare la meditazione di consapevolezza o mindfulness.

Attraverso l'esercizio dell'osservazione non giudicante della propria esperienza (pensieri, emozioni e sensazioni fisiche) si può imparare a vedere da una nuova prospettiva e superare le abituali reazioni emozionali e i pensieri ricorrenti che tendono a mantenere i problemi (Jon Kabat-Zinn).

Lo stress può essere implicato in molti problemi psicologici. Abitualmente una persona stressata che avverte disagio, tende a ridurlo perchè avverte una discrepanza tra l'idea di come sono le cose (o come si aspetta che diventino) e l'idea di come si desidera che siamo o dovrebbero essere.
Se con un'azione il divario viene ridotto, lo stress diminuisce e il nostro organismo ritorna in equilibrio altrimenti la discrepanza non fa altro che mantenersi e aggravare lo stato di disagio, tensione e sofferenza emotiva.

La mindfulness è l'aspetto centrale delle pratiche buddhiste di meditazione ed indica un affinamento delle capacità, che tutti possiedono, di prestare attenzione intenzionalmente, momento per momento, senza giudicare per riuscire a diventare più intimi con la propria esperienza attraverso l'esercizio sistematico dell'autosservazione.

La mindfulness è più che altro un modo di essere, un alternativo quanto potente funzionamento della mente di vedere se stessi e la propria esperienza da una prospettiva diversa.
Se siete interessati a partecipare ai gruppi organizzati di mindfulness per la gestione dello stress a Torino, Asti e Alba, che integrano le tecniche cognitive e la pratica di meditazione di consapevolezza, contattatemi. I corsi si compongono di sei incontri di 1h e mezza ciascuno e si basano sull'integrazione dei programmi di gestione dello stress attraverso la mindfulness di Jon Kabat-Zinn e della terapia cognitiva basata sulla mindfulness di Williams, Teasdale e Segal con la mia personale esperienza di terapeuta cognitivo e comportamentale e praticante, da diversi anni, di zazen, la "meditazione seduta" Zen.

lunedì 7 giugno 2010

L'Arcobaleno. un lungo viaggio attraverso il disagio dell'agorafobia e degli attacchi di panico


Una storia appassionante, vissuta e raccontata in prima persona dall’Autore, Pierluigi Bertini, di un disagio agorafobico fortemente invalidante, con attacchi di panico, durato quarant’anni.
Ma è anche, e soprattutto, la storia di una guarigione mai trovata, se non alla fine. Una guarigione che si è rivelata quasi improvvisa e completamente liberatoria dal momento in cui il protagonista ha finalmente deciso di affidarsi alle moderne terapie sia psicologiche che farmacologiche, essendo anche queste necessarie per la gravità del caso.
Ed allora un arcobaleno si è aperto nel cielo a indicare la fine di un diluvio.

"L'Arcobaleno. un lungo viaggio attraverso il disagio dell'agorafobia e degli attacchi di panico.", di Pierluigi Bertini.
In appendice, i contributi divulgativi e rigorosamente scientifici: "Ansia e la psicoterapia" di Fabrizio Tabianil psicologo e psicoterapeuta e "Ansia, quando il farmaco" di Paolo Cottura, medico psichiatra e psicoterapeuta. Edizioni: Mammaeditori, Parma (cliccate sul link del titolo se volete acquistarlo o ordinarlo presso la vostra liberia di fiducia, cod. ISBN 978-88-87303-41-4).

Parte del ricavato di questo libro sarà devoluto a LIDAP Onlus (Lega Italiana contro gli Attacchi di Panico e i Disturbi d'Ansia)

In "Ansia e la psicoterapia" raccolgo l'invito di Pier per descrivere e spiegare il punto di vista del terapeuta sul disagio dell'ansia e del panico, affrontando i seguenti argomenit:

- Che cos'è l'ansia e cosa serve?
- Come funziona l'ansia?
- Perchè ci spaventiamo?
- Il ruolo dei pensieri nell'ansia.
- Non solo cosa si pensa, ma come si pensa.
- Il circolo vizioso del panico.
- Conseguenze: l'agorafobia.
- Il ruolo dei comportamenti di protezione ed evitamento nell'ansia e nel panico.
- Perchè affrontare le proprie paure aiuta a liberarsene?
- La psicologia nell'ansia e nel panico.
- Ansia e panico: affrontarli in pratica.

Dalla quarta di copertina:

"Menu fisso. Ecco come potrebbe essere stigmatizzato il modo di vita di questi miei decenni.
Ma non un menu fisso di salmone-caviale-ostriche-champagne. Se già questo viene a noia figuriamoci la monotonia di un brodino e una patata bollita. Sempre.
Far sempre la stessa strada alla stessa ora.
Far sempre il giro degli stessi negozi, tutti i sabati, accompagnando tua moglie.
Far sempre gli stessi percorsi mentali dal mattino alla sera tutti i giorni, per poter analizzare e indurre ogni situazione sotto controllo.
Evitare. Questo il lavoro più grosso.
Evitare ogni situazione a rischio, ma non solo, ogni atto che ti può portare indirettamente ad una situazione a rischio.
E’ un no continuo che cerchi di giustificare a te e agli altri, che cerchi oltretutto di non dover dire per evitare lo scontro, il conflitto col mondo esterno.
E’ un no che ti si rigira dentro e diventa un no di rabbia, di ribellione.
Un no fossilizzato, duro, ormai insofferente a tutto.
Poi quasi d’improvviso dopo più di quarant’anni ho detto addio alle mie fobie e ai miei attacchi di panico.”

sabato 15 maggio 2010

Il déjà vu.



Vi è mai capitato di avere un déjà vu?

Si stima che il 60% delle persone abbia avuto almeno una volta nella vita una esperienza di déjà vu, nella maggioranza dei casi sotto stress emotivo. Questo affascinante e misterioso fenomeno che dura solitamente una manciata di secondi è un’esperienza tanto comune, quanto misteriosa.
Al giorno d’oggi non esiste una risposta scientifica definitiva che ne spieghi il funzionamento, solo ipotesi, più o meno attendibili e più o meno supportate dalle ricerche. Di sicuro, chi ha provato un déjà vu, se non sa spiegarsi il perché, sa darne una descrizione come la sensazione soggettiva che una situazione sia stata già percepita precedentemente, associata alla consapevolezza che non può essere accaduto. Un forte senso di familiarità è accompagnato da una sensazione di stranezza.
Tra le teorie attuali più accreditate per spiegare il déjà vu, quelle che incontrano il maggiore favore degli studiosi, si rifanno ai progressi nel campo delle neuroscienze degli ultimi venti anni (A. S. Brown, "The Dèjà Vù Experience: Essays in Cognitive Psychology", Psychology Press) .

Secondo una prospettiva neurologica il déjà vu sarebbe il risultato di una temporanea interruzione del sistema nervoso, simile a quelle causate dall’epilessia. Potrebbe, inoltre, essere causato da un breve e inappropriato attivarsi della corteccia paraippocampale. Questa zona del cervello è deputata al riconoscimento della familiarità. Semplicemente, mentre si sta osservando una situazione nel presente si attiverebbe erroneamente la corteccia paraippocampale che attribuirebbe alla percezione della situazione quelle caratteristiche di familiarità che generalmente si associano ad un ricordo consapevole.
A livello neurologico, il recupero dei ricordi e la capacità di provare familiarità per essi, sono due funzioni “regolate” da porzioni diverse del cervello.

Una ulteriore spiegazione del déjà vu potrebbe quindi coinvolgere i processi della memoria. Il déjà vu si manifesterebbe, perciò, in quei rari momenti in cui l’area cerebrale per la familiarità è attivata e quella del recupero dei ricordi è “spenta”.

Una teoria che si basa sull’attenzione, invece, mostrerebbe come il déjà vu sia causato da una “doppia percezione”. La scena percepita verrebbe “colta” prima che l’attenzione consapevole della persona venga focalizzata sull’evento, come se venisse “letta” in maniera subliminale. Successivamente il sistema nervoso subirebbe una piccola interruzione e immediatamente dopo la scena verrebbe “riletta con attenzione” in modo consapevole. Ecco, allora, la sensazione di aver già visto o aver già vissuto quell’evento, anche senza essersene accorti.

mercoledì 14 aprile 2010

Il cervello trino.



I nostri comportamenti, così come tutti quelli degli altri essere viventi, sono finalizzati ad ottenere una meta. Una meta tesa a soddisfare un bisogno utile per la sopravvivenza, individuale o della specie di appartenenza.

Rimandando ad altri articoli all'intro del blog (vedi, "le trappole emotive") la disamina sui bisogni fondamentali dell’uomo che dovrebbero essere soddisfatti, soprattutto nell’infanzia, per un sano sviluppo psicologico, oggi poniamo l’accento sui sistemi di regole che guidano i comportamenti. Questi sistemi di comportamento sono predisposizioni innate, perciò biologicamente determinati, e come veri e propri istinti attivano comportamenti adattivi, che sono stati sviluppati e sono stati selezionati nel corso della evoluzione filogenetica delle specie. Tanto meno evoluto è l’animale, tanto più i comportamenti sono standardizzati; tanto più l’animale è evoluto, tanto più i suoi comportamenti sono condizionati dall’ambiente e all’esperienza. L’idea di istinto o pulsione che nasce da uno stato energetico che deve scaricarsi è ormai obsoleta e superata.

Nel corso dell’evoluzione, quindi, le risposte agli stimoli ambientali (i comportamenti) sono passate dall'essere risposte automatiche e riflesse ad essere prodotti di processi di apprendimento e di

influenzamento culturale. Tale differenziazione è concretamente osservabile nel cervello umano che può essere visto come una stratificazione dei tre tipi di cervello apparsi nel corso dell'evoluzione degli animali vertebrati, così definiti da McLean: il cervello rettiliano, il sistema limbico (mammifero) e la neocorteccia (neo-mammifero).

Il cervello rettile regola il livello omeostatico delle funzioni non sociali dell’organismo, come la territorialità, l’esplorazione, l’attacco e la fuga, l’alimentazione (fame e sete), la raccolta e il consumo di cibo, il sono e la veglia, il metabolismo, la riproduzione.

Il cervello di mammifero inferiore regola il livello sociale dell’organismo, la formazione dei gruppi e dei legami, si manifesta nei comportamenti di attaccamento, di accudimento ed agonistici. E’ il regno delle emozioni.

Il cervello neo-mammifero (primate) media le cognizioni superiori di esplorazione introspettiva, immaginazione ed astrazione, ricerca di significato, predizione e programmazione di comportamenti, formazione di concetti e significati e si manifesta in comportamenti cooperativi ed affiliativi. E’ il regno del linguaggio.

Il modello di McLean suggerisce che a ciascun livello di evoluzione cerebrale appartiene una propria serie di sistemi di comportamento specifici. I sistemi comportamentali limbici e neocorticali affiancano quelli dei livelli inferiori, senza però annullarli o sostituirli. Nell’uomo ci sono quindi comportamenti provenienti da tutti e tre i cervelli di McLean.

Perché gli arbitri commettono degli errori?



Ogni settimana il mondo del calcio non è solo costellato da gesti atletici memorabili dei propri protagonisti, ma anche, e soprattutto in Italia, dalle mille polemiche sugli arbitri e sulla loro conduzione di gara, sui loro continui errori di valutazione. Le vicende di calciopoli, tornate alla ribalta in quest'ultimo periodo, hanno messo in luce, tra gli scandali appurati, la direzione di partite non del tutto imparziale, per usare un eufemismo, di alcuni arbitri, può aver dato spiegazione ai diversi clamorosi errori di valutazione dei direttori di gara.
Ciò non toglie, però, la possibilità di commettere un errore, nonostante la buona fede e la lealtà sportiva, perché arbitri e guardalinee sono pur sempre uomini e, come tali, sono soggetto ai limiti percettivi e attentivi del proprio cervello, come chiunque altro.

In altre parole, nessuno è perfetto, ma possiamo impegnarci per fare del nostro meglio. Ecco, allora, che alcuni ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Firenze, aiutano i tifosi ad essere più comprensivi, dimostrando scientificamente (in uno studio comparso su PLoS Biology) come gli arbitri “sbagliano con convinzione”.

I ricercatori hanno rilevato come in una condizione di confusione percettiva, cioè in presenza di numerosi stimoli distraenti (
per sempio il fuorigioco), l’arbitro non solo sbaglia con maggiore probabilità, ma è anche molto più certo di aver visto qualcosa che non ha visto.
Contrariamente, quindi, da quanto ci si potrebbe ragionevolmente aspettare, l’arbitro nutrirebbe molti meno dubbi, più sono numerosi gli stimoli distraenti in campo, in una circoscritta zona di gioco. Si realizzerebbe un'artificiosa e illusoria certezza, probabilmente a causa delle caratteristiche del cervello di gestione di una situazione percettiva troppo complessa per le sue possibilità di codifica.

Infatti, di fronte all’interazione di molteplici elementi che generano un problema (es. decidere se è rigore o meno una determinata azione di gioco) e alla necessità di trovare una soluzione, si attiva un caratteristico stato mentale denominato “modello mentale del fare”, allorché viene percepita una discrepanza tra l’idea di una cosa come dovrebbe essere e come invece è nella realtà (ad es. è o non è fuori gioco?). Questa modalità di funzionamento mentale spinge automaticamente e inconsapevolmente la mente a esaminare le cause e le possibili soluzioni.

La discrepanza percepita genera uno stato emotivo di disagio, che si manterrebbe permanentemente se la discrepanza non venisse corretta (cioè, se una soluzione non venisse mai trovata). Inoltre, spesso la mente automaticamente e inconsapevolmente cerca di manipolare le proprie idee (percezioni, ricordi, pensieri) pur di trovare una soluzione (è fuorigioco) che possa interrompere ed eliminare definitivamente lo stato di disagio.

Durante una partita accadono molte situazioni importanti in cui viene richiesto di prendere una decisione in pochissimo tempo e senza ripensamenti, con convinzione; lo stato mentale del “fare” viene costantemente attivato. Basterà questa spiegazione per essere più comprensivi o meno sospettosi la prossima volta che un arbitro commetterà un errore di valutazione a sfavore della propria squadra del cuore?

venerdì 26 marzo 2010

Primo incontro per "Mente in... forma" in quel di Asti.

Dalla "Gazzetta di Asti on-line":

"Nella sede di corso Genova della Croce Verde, è iniziato ieri il ciclo di incontri “Mente in…forma”, nato dalla collaborazione del Centro Studi e Ricerche Victor Meyer di Asti, la Croce Verde e Fidia Benessere. Si è parlato dei vari disturbi d’ansia con cui ci si imbatte quotidianamente. La serata è stata presentata dal presidente della Croce Verde di Asti Giorgio Bertolino che ha dato il benvenuto ai relatori: il medico psichiatra Ernesto Viarengo, gli psicoterapeuti Fabrizio Tabiani, Christian Demichelis e la Marina Balbo che ha moderato l’incontro.[...]"

Per leggere il resto cliccate qui.

mercoledì 10 marzo 2010

Lo psicoterapeuta tascabile

Qui trovate, in ordine cronologico di pubblicazione, l'elenco degli articoli di auto aiuto che ho postato nel blog, buona lettura e buon lavoro!

Il dialogo interno 1: che cos'è.

Il dialogo interno 2: come modificare il proprio dialogo interno.

Il dialogo interno 3: che rapporto c'è tra pensieri, emozioni e comportamenti.

Il dialogo interno 4: pensieri ragionevoli e funzionali, disfunzionali e illusori.

Il dialogo interno 5: le distorsioni cognitive o virus mentali.

venerdì 29 gennaio 2010

Le distorsioni cognitive (pillole di auto-aiuto 5).


Cosa si sta pensando, determina in gran parte le nostre reazioni emotive e comportamentali in una certa situazione. Non solo che cosa si pensa è fondamentale per comprendere la motivazione alla base delle emozioni e dei comportamenti, ma anche come si pensa.

L’uso di particolari modi di valutare la realtà e di ragionare, detti “distorsioni cognitive”, contribuisce a creare pensieri disfunzionali e quindi ad alimentare stati d’animo negativi.

Tutti noi commettiamo errori di ragionamento, perché quando dobbiamo prendere una decisione o attribuire la causa a qualche evento, la conclusione a cui arriviamo non deriva da una dettagliata analisi logica di tutti gli elementi e le variabili che possono avere influenzato la situazione. La nostra mente funziona su un principio economico per cui cerca delle scorciatoie, si basa solo su alcuni elementi, salta alle conclusioni, invece di usare una logica ferrea, in ogni momento, in ogni situazione.

Gli errori di ragionamento possono causare problemi, quando vengono usati sistematicamente, con intensità, allora producono pensieri costanti disfunzionali, cioè pensieri poco realistici e determinano sofferenza emotiva. Le distorsioni cognitive possono essere riconosciute nel nostro flusso di pensiero, il dialogo interiore, e modificate allo scopo di riformulare pensieri più realistici, adattivi e funzionali al nostro benessere.

Proviamo insieme a vedere quali sono i passi fondamentali da svolgere:

1° Passo: Ascoltare il proprio monologo interno.

È importante che si ponga attenzione a ciò che io mi dico e non solo a ciò che dice l'altro. Ci si può aiutare tenendo un diario dei propri pensieri.

Esempio:

Evento

Pensieri

Sentimento

Appuntamento mancato

Io non sono importante, sono invisibile

Rabbia, tristezza

Lavare i piatti

Nessuno mi aiuta, devo fare tutto da sola

Tristezza

Cominciando ad osservare i pensieri e le emozioni che determinano le reazioni, si può cominciare a capire che alla base di un nostro comportamento non c'è solo una risposta al comportamento dell'altro ma anche un'idea iniziale preconcetta.

2° passo: identificare le proprie distorsioni cognitive

Una volta che si comincia a osservare il proprio dialogo interno è possibile cominciare ad indagare sulle proprie distorsioni cognitive. Le distorsioni cognitive più comuni che hanno maggiore impatto sulle relazioni interpersonali sono:

  • Il pensiero dicotomico (o tutto o nulla): una situazione o è un successo oppure è un fallimento, non esistono gradi intermedi, se una situazione non è perfetta è un completo fallimento (ad esempio, "Poiché la terapia cognitiva non risolverà tutti i miei problemi, perché dovrei farla?").

  • L’ipergeneralizzazione, il fare, come si dice, "di tutt’erba un fascio", un evento negativo non è semplicemente qualcosa che in quella circostanza è andata male, ma è la prova che la vita è fatta solo di eventi negativi.

  • L’astrazione selettiva (o filtro mentale) , cioè il puntare l’attenzione su di un solo aspetto (negativo) di una situazione ignorando tutto il resto (positivo) (ad esempio, il professore loda l’elaborato e suggerisce alcune modifiche marginali e questo viene vissuto come un giudizio negativo su tutto il lavoro senza tener conto dei giudizi positivi).

  • Il minimizzare i lati positivi: le cose positive sono in contrasto con la visione negativa e vengono perciò minimizzate, attribuite al caso o all’educazione, alla gentilezza degli altri ("era una cosa secondaria ... per una volta ho avuto fortuna ... lo dicono per educazione, perché certe cose non si dicono in faccia ...").

  • L’inferenza arbitraria, il saltare, cioè, alle conclusioni partendo da premesse che in realtà non giustificano tali conclusioni. Ad esempio, se il soggetto vede un conoscente che attraversa la strada prima di incrociarlo, penserà "Non ha voluto incontrarmi". In questo caso è in atto una seconda distorsione cognitiva:

  • la lettura del pensiero, ossia, essere convinti di sapere cosa pensa l'altra persona, senza prove che ne confermino questa convinzione.

  • La catastrofizzazione: il giudicare gli eventi negativi come intollerabili catastrofi, una brutta figura viene vissuta come una cosa terribile, un’umiliazione intollerabile.

  • Il ragionamento emotivo, il considerare, cioè, le reazioni emotive come prova di qualcosa ("Mi sento spaventato, questo vuol dire che la situazione è veramente pericolosa").

  • La doverizzazione: il giudicare se stessi e gli altri sulla base di ciò che uno "dovrebbe" comportarsi o sentire ("Se è un amico, deve stimarmi, perché bisogna stimare gli amici").

  • L’etichettamento: il definire le cose con un’etichetta globale invece che facendo riferimento a cose specifiche, come ritenersi "un fallimento" piuttosto che ammettere di essere incapaci di fare una cosa specifica.

  • La personalizzazione, il ritenere se stessi responsabili di qualcosa di cui, in realtà, sono soprattutto responsabili altre persone o altri fattori.

3° Passo: Considerare le relazioni tra pensieri e comportamenti

Osservando quotidianamente il proprio dialogo interno, evidenziando le distorsioni cognitive e ile emozioni che ci caratterizzano possiamo cominciare a chiederci: "cosa mi dico quando mi sento in questo modo?", "quando agisco in questo modo?"

4° Passo: Sfidare e cambiare le distorsioni cognitive

Una volta riconosciute le distorsioni è utile esercitarsi per modificarle. Anche se è un lavoro difficile e non si è supportati da uno specialista, si può ricorrere ad un elenco di domande per metter indiscussione le distorsioni cognitive.
Vediamole:

  • Quale evidenza è a favore della mia interpretazione?

  • Quale evidenza potrebbe essere contraria alla mia interpretazione?

  • C'è una spiegazione alternativa per il comportamento del mio partner?

  • Ci sono altri motivi o sensazioni che possono averlo spinto ad agire in quel modo?

  • Quello che penso è sempre vero o ci sono eccezioni?

  • Se sto generalizzando o etichettando, posso descrivere la situazione in modo più accurato e specifico?

  • Posso riformulare una parte del mio dialogo interno tenendo conto delle informazioni acquisite attraverso queste riflessioni?

giovedì 7 gennaio 2010

Il dialogo interno (Pillole di auto-aiuto 4)

Come descritto negli articoli precedenti inerenti il dialogo interno, che cosa si sta pensando, determina le nostre reazioni emotive e comportamentali in una certa situazione.

Non è facile, però, rendersi conto di quali pensieri ci passano per la testa quando agiamo o proviamo forti emozione negative, come ansia, rabbia, tristezza, perché col tempo diventano quasi automatici.

Inoltre, la maggior parte delle volte questi pensieri sono disfunzionali, perché sono poco realistici e controproducenti, non ci aiutano cioè a raggiungere i nostri scopi.

Un pensiero disfunzionale è quindi:
  • automatico, ossia compare alla mente inconsapevolmente e velocemente se non si presta molta attenzione;
  • distorto, in quanto non è corrispondente ai fatti, non si basa su delle prove certe, su ciò che è accaduto realmente e quindi è inaccurato;

  • controproducente, perché provoca malessere e ostacola il raggiungimento degli obiettivi;

  • involontario, non può infatti essere scelto ed è difficile da allontanare dalla mente. Se individuiamo e modifichiamo questi pensieri “negativi”, possiamo diminuire e cambiare le nostre reazioni emotive più intense e sgradevoli.
Pensare in modo più funzionale, però, non vuol dire rifiutare tutti i pensieri negativi, non vuol dire pensare “positivo”, ma significa vedere se stessi e ciò che ci sta intorno in modo realistico in maniera da aumentare le possibilità di affrontare le situazioni con successo.

E’ fondamentale distinguere tra pensiero disfunzionale, illusorio o positivo e funzionale. Ecco un esempio:
  • p. disfunzionale: “E se non riuscissi a farcela? Sarebbe terribile, un disastro! Non riuscirei a sopportarlo!”, oppure “Non ho passato l’esame, ciò prova che sono un fallito e un buono a nulla, non avrò nulla di buono dalla vita.”
  • p. illusorio: “Ci riuscirò senz’altro. Andrà tutto bene.”, oppure “Non me ne importa niente. Quell’esame non sarebbe servito a niente in ogni caso…”
  • p. funzionale: “Ce la poso fare. Non è necessario essere perfetti, cercherò di impegnarmi e fare del mio meglio. Se le cose non andranno come vorrei, sarò deluso, ma non per questo disperato.”, oppure “Mi dispiace non essere passato all’esame, ma posso ritentare e fare meglio.”
Come è possibile osservare, diverse espressioni distinguono le tre forme di pensiero.
Ogni volta che ci diciamo “Devo…”, “Bisogna assolutamente…”, “E’ terribile…”, “E’ Insopportabile…”, formuliamo un pensiero disfunzionale che innesca una emozione negativa spesso esagerata e di conseguenza un malessere di cui possiamo fare a meno.

Prestiamo attenzione alle espressioni che usiamo in ciò che ci diciamo nel proprio dialogo interno, aiutiamoci con domande quali, “Che cosa peso di me?”, “Che cosa penso degli altri?”, “Che cosa penso della situazione?”, “Che cosa temo che succeda?”, “Sto usando le espressioni, ‘Devo…’, “E’ terribile…”, ecc…?”

Nel prossimo articolo vedremo come l’uso di particolari modi di valutare la realtà e di ragionare, detti “distorsioni cognitive”, contribuiscono a creare pensieri disfunzionali e quindi ad alimentare stati d’animo negativi.