mercoledì 28 maggio 2008

L'ABC delle emozioni

Supponiamo di stare aspettando una telefonata da un nostro caro amico. Siamo in attesa di sapere a che ora passerà a prenderci stasera per andare ad una festa. Ha detto che ci chiamerà fra un paio d’ore. Il tempo passa e l’amico non si fa sentire. Le ore trascorrono e il telefono non squilla…

Come potremmo reagire alla situazione?
Potremmo essere preoccupati, arrabbiati, tristi o anche sollevati.

Come è possibile provare emozioni così diverse per una medesima situazione?
Cerchiamo di esaminare bene tutta la sequenza. Il fatto che l’amico non ci ha chiamato all’ora prefissata è l’evento iniziale, scatenate o attivante la sequenza. Chiamiamo questo evento il punto A della sequenza.
La rabbia è uno dei modi in cui ci siamo sentiti in conseguenza al verificarsi di A, cioè un’emozione. Chiamiamo l’emozione il punto C della sequenza.

Molte persone sono convinte che sia l’evento A a scatenare l’emozione C, ossia che A causi C.

Questo è un modo per spiegare le proprie emozioni: “mi sono arrabbiato, perché non mi ha chiamato!” Ma è un modo impreciso, perchè non chiarisce come sia possibile provare diverse emozioni a causa di situazioni uguali o come persone diverse possano provare emozioni diverse nella stessa situazione. Potremmo infatti dire, allo stesso modo: “Sono triste, perché non mi ha chiamato.”

Dimentichiamo infatti un elemento importante della sequenza: quando ci accade qualcosa, noi pensiamo a quanto accade in un certo modo.

Ad esempio, la telefonata non arriva e ci rattristiamo, perché potremmo pensare: “Si è dimenticato di chiamarmi, non sono un grande amico per lui”.
Oppure ci preoccupiamo: “Come mai non telefona, gli sarà successo qualcosa?”.
O ci arrabbiamo, se pensassimo qualcosa tipo: “Non è così che si fa, è un maleducato!”. Potremmo perfino essere contenti se alla mancata telefonata (l’evento A) pensassimo: “Meno male che non ha telefonato. Non avevo proprio voglia di andare alla festa…”.

Perciò chiamiamo i pensieri il punto B della sequenza, l’elemento che sta in mezzo, tra il punto A, l’evento scatenate e il punto C, le emozioni.

La sequenza A-B-C così sintetizzata è un modo più preciso di spiegare le emozioni che proviamo in un dato momento. Il modello ABC, alla base della psicologia cognitiva, sostiene infatti che le nostre emozioni derivano non tanto da ciò che ci accade, ma dal modo in cui interpretiamo e valutiamo ciò che ci accade.

Ecco perché la spiegazione comune per cui A causerebbe C è inesatta. Per capire le proprie reazioni emotive è necessario andare a vedere cosa è successo al punto B, cioè iniziare a chiedersi quale insieme di pensieri su ciò che è successo è presente nella propria mente.

Questo è il primo passo per aumentare la consapevolezza delle proprie reazioni emotive e comportamentali e per comprendere le specifiche relazioni esistenti tra pensieri e sentimenti che stanno alla base dei problemi psicologici.

martedì 27 maggio 2008

Il Biofeedback

Attraverso l’uso di una apparecchiatura elettronica denominata biofeedback è possibile imparare a rilassarsi da soli in modo efficace e a regolare le funzioni biologiche del proprio organismo che di norma non sono sotto il controllo volontario, come ad esempio la frequenza cardiaca, la temperatura, la tensione muscolare, la resistenza elettrica della pelle, il ritmo alfa cerebrale (indice di autocontrollo e benessere, rilassamento e di una mente non impegnata in alcun compito, sgombra di pensieri, ma sveglia, attenta e pronta a recepire stimoli sensoriali).

Per esempio, lo strumento rileva il battito cardiaco, lo elabora e lo trasforma in un segnale visivo o acustico, ricavando due parametri: la frequenza cardiaca e lo stato di vasodilatazione (o di vasocostrizione) periferica in base all’ampiezza del segnale registrato. Se l’ampiezza è bassa, significa che c’è vasocostrizione (la temperatura cutanea delle dita è bassa e vasocostrizioni temporanee possono essere causate da fenomeni emozionali transitori provati dal soggetto), altrimenti se l’ampiezza del segnale è buona, c’è vasodilatazione. In questo modo la persona può percepire, attraverso immagini e/o i suoni prodotti dall’apparecchiatura, l’intensità del proprio stress, sperimentando la propria tensione emotiva in tempo reale e, cercando di evitare che la macchina suoni, impara ad esercitarsi per riportare alla normalità le funzioni del proprio corpo.
Attraverso un monitoraggio automatico e costante dei segnali oggettivi del proprio stato di stress fisico ed emotivo, la persona è in grado di apprendere rapidamente a raggiungere uno stato di rilassamento.
Il biofeedback può essere usato per il trattamento di diverse condizioni. Le aree in cui è stato maggiormente applicato sono quelle relative alla gestione del dolore, dello stress e degli stati ansiosi; mentre il neurofeedback (specifico per la rilevazione delle onde cerebrali) viene comunemente applicato con efficacia per i disturbi da deficit dell’attenzione e iperattività, i traumi cranici e le dipendenze.


I disturbi d’ansia e psicosomatici sono tra le patologie più studiate e trattate con biofeedback. La risposta ansiosa è un modo col quale il sistema nervoso può reagire se stressato.

Quando questa risposta è continua nel tempo diventa problematica, perché si è sottoposti ad uno stress cronico e abituale. L’utilizzo sistematico e controllato del biofeedback è uno strumento che, utilizzato all’interno di una mirata terapia permette in breve tempo di apprendere a controllare e gestire l’ansia, mentre le tecniche di neurofeedback possono aiutare a stabilizzare il sistema nervoso centrale, in modo tale da non produrre intense risposte d’ansia agli stressor quotidiani.

giovedì 22 maggio 2008

Cosa impedisce di essere felici: le trappole emotive

  • Continuate ad innamorarvi di persone che vi rifiutano?
  • Rimanete coinvolti in relazioni con persone fredde nei vostri confronti?
  • Pensate che ci sia qualcosa di sbagliato in voi?
  • Vi sentite ansiosi e vulnerabili?
  • Provate troppo spesso un senso di inadeguatezza e di inferiorità?
  • Siete diffidenti nei confronti degli altri?
  • Anteponete i bisogni degli altri ai vostri al punto tale che le vostre esigenze non vengono mai soddisfatte?
  • Pensate che nessuno vi capisca?
  • Non vi sentite mai appagati o non realizzati o immeritevoli nonostante l’approvazione e il consenso degli altri?
  • Pensate di non valere nulla?
Forse siete imprigionati in una “trappola emotiva”… siete finiti all’interno di un circolo vizioso che vi impedisce di essere felici.Vivere in una trappola” è come se qualcosa di vitale sfuggisse, come avere la sensazione di non essere pienamente padroni della propria vita, bloccati all’interno di ripetitivi modi di pensare, di sentire, di comportarsi e di relazionarsi con se stessi e gli altri, tali da compromettere importanti aree de funzionamento affettivo, lavorativo e sociale.
Modalità che si sono formate nel tempo in momenti cruciali dello sviluppo di una persona, presumibilmente nella prima infanzia o talora nell’adolescenza dall’incontro tra il proprio temperamento genetico e le proprie esperienze interpersonali, prime fra tutte quelle con i propri genitori.

Può accadere infatti che molte persone, nel corso della loro vita potrebbero avere avuto esperienze di troppa o scarsa protezione, potrebbero essere state abusate emozionalmente e/o fisicamente, potrebbero essere state denigrate, abbandonate, deprivate, potrebbero aver percepito e vissuto un’intensa distanza tra loro e le persone che le hanno accudite, in modo tale che la soddisfazione dei propri principali ed universali bisogni riguardanti la sicurezza di base, i rapporti interpersonali, l’autonomia, l’autostima, l’espressione di sé e la presenza di limiti realistici non è stata sufficiente o è mancata del tutto.

Queste esperienze emotivamente negative possono lasciare un’impronta molto profonda nelle persone, tale da creare l’aspettativa che ciò che di negativo è accaduto nel passato è ciò che accade sicuramente nel presente ed è quello che ci si deve attendere nel futuro, in un’estenuante ripetizione di schemi sempre uguali, dolorosi e insoddisfacenti.

Ecco allora che ci si può “arrendere alle trappole” e perdere la speranza di cambiare i propri modi di pensare, sentire, agire e relazionarsi, rimanendo nella trappola.

Oppure si può cercare di evitare ogni situazione che possa far scattare la trappola, ossia ogni situazione che possa farci sentire in trappola.

Oppure si può tentare di vivere “all’opposto della trappola”, come se andasse tutto bene, ma consapevolmente spaventati di poterci cadere da un momento all’altro.

Tutto questo senza avere l’idea che, per fortuna, c’è un modo di vivere “al di fuori” delle trappole. Numerosi possono essere gli esempi concreti di questi “modi di vivere infelici”, mi riserbo di approfondirli in articoli successivi, dopo aver descritto la natura e l’origine delle varie trappole emotive.

Il comportamento dei familiari nel caso di panico e agorafobia

Quando una persona soffre di attacchi di panico, questa condizione incide sull'intera famiglia.
I membri della famiglia possono andare incontro ad un sentimento di frustrazione in quanto i loro tentativi di aiutare la persona colpita dal disturbo non hanno successo, si trovano sovraccaricati di responsabilità e socialmente isolati. La famiglia dovrebbe incoraggiare il/la parente con attacchi di panico a cercare l'aiuto di un esperto qualificato nella terapia del disturbo.
Alcune strategie possono essere utili, come per esempio incoraggiare la persona affetta da panico ad avvicinarsi almeno un po' ogni tanto alle situazioni o ai posti temuti.

Nei casi di disturbi d'ansia. Cosa fare?

  • Non fate congetture su ciò di cui la persona ha bisogno, chiedeteglielo.
  • Siate prevedibili, non fate loro sorprese.
  • Lasciate che la persona abbia momenti di tranquillità per rimettersi.
  • Trovate aspetti positivi in ogni esperienza. Se la persona è in grado soltanto di affrontare alcune situazioni, come andare a teatro o ad una festa, consideratelo un successo non un fallimento.
  • Non permettete evitamenti. Quando la persona vuole evitare qualcosa, concordate di fare anche un solo passo alla volta verso la situazione o il luogo temuto.
  • Non sacrificate la vostra vita con il rischio di cominciare a provare rancore verso la persona con panico.
  • Non entrate in panico quando la persona ha un attacco.
  • Ricordate che è normale che voi stessi siate ansiosi; è normale essere un po' agitati o anche preoccupati per la persona.
  • Siate pazienti e comprensivi, ma non rassegnatevi a considerare la persona malata per sempre.
  • Dite loro "Lo puoi fare, non importa come ti senti. Sono fiero/a di te. Dimmi di cosa hai bisogno. Respira lentamente e con calma. Concentrati sul momento presente. Non è il posto che ti infastidisce, sono i tuoi pensieri. So che quello che provi è brutto, ma non è pericoloso. Sei davvero coraggioso/a".
NON DITE:

"Rilassati!", "Calmati!", "Non essere ansioso", "Vediamo un po' se ci riesci" (mettendo la persona nella posizione di dover superare un test), "Puoi combattere", "Cosa faremo dopo?", "Non essere ridicolo/a", "Devi restare qui", "Non essere vigliacco/a". (Tratto dal NIMH. National Institute of Mental Health)



Tale articolo è presente anche su Medicitalia.it

Le teorie naif: in che cosa consiste una psicoterapia (seconda parte)

Nell’articolo precedente ho spiegato come ogni persona ha delle idee sia sulle cause della sofferenza (propria e altrui), sia su come si potrebbe agire per risolverla. Queste opinioni, il più delle volte, si basano però su una psicologia ingenua o teorie naif, più o meno distanti dal modello professionale dello psicoterapeuta.

Rimandando ad un prossimo articolo una breve esemplificazione delle teorie naif più comuni, è opportuno avere prima un’idea precisa delle teorie che il terapeuta propone ai pazienti per aiutarli a guarire dalla propria sofferenza.

Il modello seguente si rifà alla teoria cognitiva e comportamentale, considerata a livello internazionale uno dei più efficaci modelli per la comprensione ed il trattamento dei disturbi psicopatologici, così come attestano recenti documenti diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Sostanzialmente tale modello postula che ogni persona è guidata dal perseguimento di scopi (bisogni, desideri, aspirazioni, ecc..).
Gli scopi sono sia innati, sia appresi.
Le emozioni svolgono una funzione di segnale, quelle positive informano il raggiungimento degli scopi, quelle negative il fallimento del realizzazione dello scopo o la minaccia di un fallimento.
Per raggiungere uno scopo, si mettono in atto delle strategie. Quali e come usarle è determinato dalle credenze (cognizioni), che funzionano un po’ come una mappa sia di se stessi e del territorio in cui ci si trova: sulla base del tipo di territorio che le proprie credenze (convinzioni, assunzioni, valutazioni, giudizi, ecc..) delineano e sulla conseguente constatazione di dove ognuno si colloca e vuole arrivare (scopo), si organizzano specifici percorsi (si attuano certe strategie) per giungere all’arrivo (ottenimento dello scopo). Le credenze sono sia innate, sia apprese dall’esperienza, in particolare dall’esperienza precoce (infanzia e adolescenza).

Inoltre, le emozioni e i comportamenti non sono determinati dagli eventi, ma dalle soggettive valutazioni che su di essi vengono fatte. In ogni istante avviene una valutazione degli eventi come positivi o negativi rispetto ai propri scopi, tramite un dialogo interno.

Le prime credenze apprese lottano per sopravvivere e tendono ad autoconfermarsi, cioè dirigono la percezione, la memoria e l’apprendimento di nuove esperienze agendo come un filtro che esclude tutte gli elementi e le prove che non le confermano. Questo aspetto è molto importante, perché la sofferenza dipende dal ripresentarsi continuo del fallimento di uno scopo, senza che si riesca a cambiare strategie per raggiungerlo o senza che si riesca a rinunciare a quello scopo.

Per la loro particolare natura autoconfermante le credenze vengono generalizzate a diversi contesti della vita. Quando sono state apprese avevano una funzione di adattamento dell’individuo al contesto particolare in cui viveva; accade spesso che in altri contesti le stesse credenze siano del tutto o in parte disfunzionali, causando sofferenza.

Il cambiamento in terapia, e nella vita, passa perciò attraverso un cambiamento delle credenze che permetta un cambiamento delle strategie per ottenere uno scopo o la rinuncia stessa dello scopo, quando irraggiungibile. Ciò viene attuato rivivendo criticamente il contesto passato in cui le credenze sono state apprese e mediante azioni specifiche nel presente atte a metterle alla prova per favorire la loro messa in discussione circa la loro utilità e verità.

La psicoterapia cognitiva e comportamentale aiuta ad incrementare la consapevolezza circa i propri scopi, le proprie strategie per raggiungerli, le proprie credenze e il dialogo interno che genera le emozioni e i comportamenti e a mettere in discussione le credenze che causano sofferenza, cercando credenze alternative più utili e funzionali.